Crisi sociale e chiarezza a sinistra

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un progressismo logoramento di tutta una serie di valori che avevano ispirato larga parte della vita sociale e civile italiana dal dopoguerra...

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un progressismo logoramento di tutta una serie di valori che avevano ispirato larga parte della vita sociale e civile italiana dal dopoguerra in avanti.
Generalmente, quando si far riferimento ai “valori”, si sbatte, dolenti o nolenti, contro l’accusa di qualcuno che ti etichetta come “conservatore”, attaccato a qualche insipido tradizionalismo. E chissà poi perché deve quasi sempre ssere così: esistono anche valori e valorizzazioni che hanno una proposizione rivolta al futuro e che, proprio per le loro radici in un passato nemmeno troppo remoto, possono ancora rappresentare uno scatto in avanti per il potenziamento dei diritti sociali, di quelli civili e del rapporto che esiste tra noi esseri umani e l’intero ambiente di vita che ci circonda e ci contiene.
Valori dimenticati o, più semplicemente, rimossi per far posto a spiegazioni notevolmente più semplici (e semplificate) dei problemi che dobbiamo affrontare? C’è anche della dimenticanza, è abbastanza ovvio, quando si rimuove così facilmente un elemento guida come un discrimine, un valore etico, un elemento politico – sociale, uno standard di comportamento dettato da norme che sono nate per recuperare ad una vita degna di essere vissuta i milioni di italiani che avevano invece passato vent’anni sotto una feroce dittatura.
Ma è un oblio anomalo, quasi autoindotto, uno schermo dietro al quale pararsi per continuare ad avere un nemico su cui riversare le maledizioni che quotidianamente lanciamo, gli anatemi che ci ispirano nei comizi del capocomico di turno che si erge a salvatore della patria e che indica la via del rinnovamento da una classe dirigente assolutamente, totalmente corrotta, dove non c’è posto per chi – ed esiste – è diverso dall’ammasso, dal verminaio (si sarebbe detto un tempo…) di una commistione tra pubblico e privato che ha fatto della politica qualcosa non di cui occuparsi e per cui anche vivere secondo un ideale, ma una cosa invece sporca, intangibile, esecrabile senza se e senza ma.
Totalitarismi etici che conducono ad adesioni di massa verso modelli di stato-etico, verso corali urla che evitano la ragione e seguono solo la anche giusta e giustificata rabbia di una popolazione allo stremo delle forze.
Però… c’è un “però” che mi frulla nella testa e che vorrei condividere con chi ha la pazienza di leggermi (e forse, quindi, anche la sfortuna o fortuna. Sta a lui o a lei deciderlo…): come mai è così spontaneo puntare il dito contro qualcuno e non rivolgerlo mai verso sé stessi?
Siamo davvero sicuri che in tutti questi decenni di consunzione della buona politica sufficientemente democratica e quel tanto tollerabile in corruzione da essere poco biasimata nei suoi rappresentanti legalmente eletti, ognuno di noi, tutti compresi, lavoratori, lavoratrici, pensionati, studenti e studentesse, precari, disoccupati, chiunque non detiene la proprietà dei mezzi di produzione, abbia fatto almeno il minimo indispensabile per veder cambiare le cose?
Siamo sicuri che siamo, che siete assolti, incolpevoli, immacolati e quindi privi di responsabilità rispetto all’attuale stato di disgrazia sociale, politica ed economica in cui versa questo Paese?
Io non ho dei dubbi in merito, ma ho la certezza che la responsabilità è collettiva e che anche in una cosuccia piccola e meschina come il voto politico, come la delega attraverso cui abbiamo sempre eletto i nostri rappresentanti nelle alte assemblee legislative della Repubblica, anche in questo sta una responsabilità pluridecennale di tutto un popolo.
Sta nel disimpegno progressivo di moltissime compagne e moltissimi compagni; sta nella ricerca, abilmente eterodiretta e pilotata da esperti del settore, del capro espiatorio su cui rovesciare le sfortune ora politiche, ora economiche, ora sociali di questo o quell’ambito della vita italiana (ed anche europea); sta nel disinteresse, in una apatia che ha travolto milioni di cittadini, stanchi delle parole e provati dai risultati sempre contrari alle parole stesse che il politico di turno pronunciava.
Non esiste una sola spiegazione, una sintesi ragionata e definibile in pochissime parole, per descrivere i successi elettorali ripetuti di Silvio Berlusconi: è evidente che, ben prima del moderno proletariato italiano, la borghesia di questo Paese si era accorta che votandolo non faceva automaticamente il proprio interesse, ma sceglieva chi gli garantiva una copertura senza scrupoli di affari fatti senza altrettanti scrupoli (basti ricordare la vicenda dei “capitali scudati”).
Poi i mercati hanno parlato, così come parlava l’Oracolo di Delfi, e hanno cacciato il cavaliere nero di Arcore per preferirgli un tecnico come Monti nella gestione delicatissima (per il capitalismo continentale ed italiano) della crisi economica.
La crisi dei bassi salari, la crisi che ha visto e vede la compressione della domanda e che, quindi, è la manifestazione migliore (e peggiore) della contraddizione capitalistica: i beni di consumo aumentano, le tecnologie ne elaborano sempre più complessi e ingegnosi da smerciare, ma il tenore di vita diminuisce, l’impoverimento aumenta e il necessario diventa impossibile, mentre il superfluo di un tempo diventa un’Araba Fenice: dove sia nessuno lo sa, anche se tutti sanno che esiste.
Dunque, la crisi economica è la determinazione fattiva di politiche aggressive verso i redditi da lavoro che vanno respinte e questo lo si può fare solo scegliendo chiaramente e definitivamente da che parte stare.
Vedo ancora troppe incertezze, troppi tentennamenti e paure: qui non è in gioco la rinascita di una idea, ma la vita di un progetto che deve avere ampio respiro e che non può non essere anticapitalista.
Perché o l’analisi è sbagliata e “tutto va bene madama la marchesa”, oppure l’analisi è giusta e occorre, anche con molta paura, riprendere a parlare con le persone e i lavoratori, con gli studenti e i precari e fare un lavoro quasi da primo novecento, da fine ottocento, quando i socialisti e i comunisti, al pari di molti anarchici, andavano paese per paese, città per città per costruire le prime cellule di un movimento che ha fatto per oltre cento anni la storia e che l’ha cambiata e che ha davvero fatto paura alla borghesia e al padronato.
Quando volete saggiare i rapporti di forza e capire quanto conta la sinistra ovunque, domandatevi se qualcuno la teme; se qualcuno ha paura che possa guidare dei processi di cambiamento nel reale delle condizioni di sfruttamento di ogni giorno. Con mille mezzi, anche con quello parlamentare, perché esimersi dal contesto parlamentare sarebbe improduttivo e infantile.
Ma sia chiaro: a patto che le regole del gioco valgano uguali per tutti. Perché con i trucchetti delle leggi elettorali portati avanti in questi decenni, è evidente che le partite sono state manomesse e che hanno barato non i più deboli che sedevano al tavolo da gioco ma sempre e solo i più forti, quelli che in televisione si dicevano (e ancora oggi si dicono) gli attrattori del maggior consenso.
Non si può unire la sinistra italiana in un serio progetto di quell’ampio respiro che citavo prima se alcuni poi decidono di abbracciare listoni unitari alle prossime provinciali formati dal Partito democratico insieme a Forza Italia e al Nuovo Centrodestra.
Così come non si può sperare di trovare dei comunisti alleati di altrettanti comunisti (noi di Rifondazione), se i primi si schierano con i candidati renziani più estremisti in chiave liberista.
Dobbiamo fare chiarezza in casa nostra: in casa di quella sinistra che tutti voi a parole volete rifondare e ricostruire, ma che al lato pratico, poi, tradite ora con questa ora con quella pratica di dialogo, di interazione, di sperata ed esasperante ricerca di incidenza di una forza che non avete e che non potete barattare con nessuna conquista programmatica degna di nota, degna del nome di “riforma” o di quello di “cambiamento”.

MARCO SFERINI

10 settembre 2014

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