Crisi e critica del sistema politico italiano

Fatta salva la necessaria tara da conteggiare rispetto alle giravolte già verificatesi in campagna elettorale e visibili anche in queste ore si può comunque affermare che, soprattutto rispetto all’immaginario...

Fatta salva la necessaria tara da conteggiare rispetto alle giravolte già verificatesi in campagna elettorale e visibili anche in queste ore si può comunque affermare che, soprattutto rispetto all’immaginario collettivo, la crisi del sistema politico italiano si sia assestata sull’asse: sovranisti / europeisti.

Con tutta l’attenzione alle sfumature del caso riteniamo si possa così identificare la costante critica al sistema che aveva assunto da diversi anni quella vesta che autorevoli commentatori avevano definito “populista/antipolitica”.

Adottando questa visione potrà apparire più semplice e chiara la dinamica in atto all’inizio della XVIII legislatura.

Ci troviamo, insomma, al (provvisorio?) epilogo di un processo di transizione che prosegue ormai da moltissimi anni e che ha visto la disintegrazione del sistema dei partiti che avevano retto la Repubblica tra il 1945 e il 1990 con il successivo tentativo di tramutare il sistema in bipolare (con due tentativi falliti di modificare la costituzione) esaurito nel primo decennio 2000, l’ulteriore modifica del sistema elettorale poi bocciata inesorabilmente dalla Consulta, un ulteriore tentativo di modifica costituzionale e in contemporanea una proposta di legge elettorale suffraganti il progetto di spostamento dalla centralità del Parlamento (nel frattempo del tutto ridotta dall’emergere della “Costituzione Materiale”) al Governo.

 Il tutto fallito grazie al combinato disposto del voto popolare e di un’ulteriore sentenza dell’Alta Corte.

Alla fine l’esito cui si accennava verificatosi in un clima di surreale disfatta collettiva.

Esito avvenuto attraverso il funzionamento di una  legge elettorale con la quale si è votato il 4 marzo e che sarà con ogni probabilità ancora bocciata all’esame di diritto costituzionale e mentre emergevano nuove grandi contraddizioni sociali e politiche.

Nel frattempo, da ricordare ancora come si siano disfatti i legami sociali dei partiti trasformatisi via via in “pigliatutti”, “azienda”, “personali” e sia calata verticalmente la partecipazione al voto.

Ricordiamo allora questi dati del 4 marzo 2018:

elettori iscritti: 46.505. 499

voti validi: 32.825.399

astenuti: (non presenti al seggio, bianche, nulle) 13.680.100 (29,41% sul totale degli aventi diritto).

Partiti “sovranisti” (Lega – FdI – Movimento 5 stelle: quest’ultimo ancora conteggiato da questa parte nonostante le giravolte verbali già effettuate ed anche quelle “in pectore”): 17.816.479 (38,31% sul totale degli aventi diritto)

Partiti Europeisti (PD, FI, LeU, + Europa, UDC) 13.635.097 (29,31% sul totale degli aventi diritto).

E’ possibile considerare questo il nuovo schema di riferimento del sistema politico italiano?

Difficile affermarlo con certezza ma, a questo punto, negarlo sarebbe nascondere la testa sotto la sabbia.

Lo scopo di questo intervento però è quello di presentare un’ipotesi “storica” circa il punto di rottura del sistema rispondendo alla domanda: “Quando e su quale punto si avviò la discesa della “Repubblica dei Partiti” (da Pietro Scoppola) fino alla frantumazione del sistema?”.

Molto prima, a giudizio di chi scrive, delle tre concomitanti cause cui normalmente si attribuisce l’origine del fenomeno: caduta del muro di Berlino e scioglimento del PCI, vincoli imposti dal trattato di Maastricht (1992, governo Andreotti, firmano De Michelis e Carli), Tangentopoli e scioglimento di DC e PSI.

Il punto di rottura, uno scricchiolio avvertito da pochissimi, si verificò infatti l’11 Giugno 1978: erano appena terminati i drammatici 55 giorni del rapimento Moro, si era alla vigilia dell’elezione di Pertini a Presidente della Repubblica, era in carica un governo Andreotti monocolore democristiano cui avevano votato la fiducia anche PCI, PSI, PRI, PSDI. Voto di fiducia che era stato dato proprio nel giorno drammatico del rapimento del presidente DC.

Era quello il quadro politico emerso dalle elezioni del 20 giugno 1976: sicuramente sul piano numerico il punto più alto raggiunto dalla già citata “Repubblica dei Partiti”. Quel giorno il totale degli scritti era stato di 40.426.658 e il totale dei voti validi di 36.707.507 pari al 90.80%.

Dunque in quel già ricordato 11 giugno 1978 elettrici ed elettori erano stati chiamati a votare due referendum, l’uno riguardante la cosiddetta “legge Reale” , dal nome del ministro della Giustizia repubblicano, concernente norme riguardanti l’ordine pubblico in tempo di terrorismo, l’altro relativo alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti.

Finanziamento pubblico ai partiti  introdotto nel nostro ordinamento nel 1974, per fronteggiare una situazione di corruzione politica che aveva raggiunto in quegli anni punte particolarmente elevate con lo “scandalo dei petroli” scoperto dai pretori genovesi cosiddetti “d’assalto” Sansa, Brusco e Almerighi.

In realtà quasi nessuno si accorse che si stava procedendo ad una sorta di voto di fiducia rivolto al sistema.

Voto di fiducia popolare che si verificava in un momento assolutamente topico per la vita della Nazione.

Il finanziamento pubblico ai partiti restò in vita ma la bocciatura ai partiti della solidarietà nazionale fu solenne (forse il gruppo dirigente del PSI intuì qualcosa, ma non fu sufficiente, anche perché da lì prese le mosse una proposta di torsione autoritaria del sistema attraverso l’espressione del famoso “decisionismo” e l’idea della “Grande Riforma”).

In ogni caso: elettrici ed elettori iscritti erano 41.248.657, i voti validi depositati nell’urna furono 31.410.378 (76,14%, quindi 14,66% in meno del 20 giugno 1976).

Il  no all’abrogazione della legge (voto sostenuto da DC, PCI, PSDI, PRI, SVP) ottenne 17.718.478 voti pari al 42,95% del totale degli aventi diritto.  Il 20 giugno 1976 i cinque partiti avevano ottenuto 32.923.891 voti. Erano stati lasciati sul campo ben 15,205.413 voti in due anni e quelli che erano tempi nei quali le indicazioni dei partiti (in particolare a sinistra, se si pensa al referendum sul divorzio) erano state fin a quel punto seguite con notevole attenzione.

Alle successive elezioni del 1979 cominciò a calare sensibilmente la percentuale dei voti validi anche in occasione delle politiche: su 42.203.354 iscritti, i voti validi furono 36.671.308 (86,89%, – 4% rispetto al 1976); quindi successivamente l’ingresso sul piano parlamentare delle rappresentanze di contraddizioni fino a quel punto inedite a quel livello (ambientale con i Verdi, centro/periferia con la Lega Lombarda) e gli altri fatti che sono già stati ricordati e che hanno svolto la funzione di radicale riallineamento sistemico, fino alla frana di questi giorni.

Ricordare però quel massiccio rifiuto del finanziamento ai partiti rimasto inascoltato trincerandosi le élite dietro ad una maggioranza esigua va ricordato per tentare di riflettere meglio anche sull’oggi.

Era quello suonato l’11 giugno 1978, preciso e significativo un segnale di distacco, di rifiuto, che poi avrebbe preso forma e peso sempre più consistente fino ad affermarsi egemone nell’oggi con il coinvolgimento progressivo delle giovani generazioni e l’esasperazione di quelle più anziane.

FRANCO ASTENGO

20 marzo 2018

foto tratta da Pixabay

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