Ciò che ci insegna la vicenda dei “passerotti” di Ratisbona

Li chiamavano “I passerotti del Duomo” (Regensburger Domspatzen). Questi bambini e ragazzi del dopoguerra germanico, cantavano a Ratisbona in mezzo alle melodie di Mozart, di Bach, di Beethoven, nel...

Li chiamavano “I passerotti del Duomo” (Regensburger Domspatzen). Questi bambini e ragazzi del dopoguerra germanico, cantavano a Ratisbona in mezzo alle melodie di Mozart, di Bach, di Beethoven, nel contesto di un paradiso musicale che risuonava nelle alte volte delle chiese cattoliche: in un celestiale mondo di musica che fa immaginare solo dolcezza, arrendevolezza ai sentimenti più belli e nobili, alla bontà, ad esempio, che porta a pensare a sorrisi e ad armonia universale.
In mezzo a tutto ciò per decenni a Ratisbona, nel celebre coro delle voci bianche diretto dal fratello del papa emerito, monsignor Georg Ratzinger, si sono consumati soprusi e violenze quasi indicibili.
Lo stesso alto prelato tedesco afferma di “aver dato dei ceffoni” egli stesso ma di essere stato completamente all’oscuro del clima di vero e proprio terrore che regnava nei tre luoghi del coro: il liceo, il convitto e il coro stesso.
La relazione esposta dall’avvocato Ulrich Weber parla di “distoglimento dello sguardo” da parte del fratello dell’ex papa. E non davanti ad episodi, già gravissimi, di percosse come schiaffi o di rimproveri molto duri, bensì proprio in presenza di atti di punizione corporale descritti come frutto di un vero e proprio sadismo da parte del direttore del coro Johann Meier.
Fin qui la cronaca descritta dai maggiori quotidiani italiani e internazionali.
Sono tre le considerazioni da fare in merito: la prima riguarda il rapporto tra adulti e ragazzi; la seconda riguarda il rapporto tra princìpi della fede cristiano-cattolica e loro messa in pratica; la terza concerne il rapporto di potere tra clero e laici.
Tutte e tre queste considerazioni si intersecano fra loro perché stiamo parlando di esseri umani che, diversamente posti nella società a seconda del loro “status”, nel periodo del dopoguerra hitleriano avevano in larga parte vissuto quel terrore: quello del Terzo Reich, della Germania di Adolf Hitler, dell’intransigenza a tutto tondo nella devozione al regime nazionalsocialista, prendendo ispirazione dalla tipica cultura tedesca dell’obbedienza allo Stato, al potere, a chi lo rappresenta.
Uomini di età già adulta, avanzata, che oggi hanno appunto quasi raggiunto la soglia dei cento anni, si sono comportati con una durezza spregiudicata, senza tenere conto di un “ritorno alla tenerezza”, ad un amore espunto da ogni cronaca giornalistica nei dodici anni di regime della svastica.
E lo hanno fatto, questo è il vero punto centrale della vicenda, nei confronti di chi era indifeso e deboli: dei bambini, dei ragazzi messi nella condizione della soggezione senza via di scampo.
La costrizione è stata il confine in cui questi “passerotti del Duomo” si sono dovuti muovere nell’imparare, nell’apprendere l’arte del canto, della coralità: ciò che li legava e che, molto probabilmente li ha fatti resistere ai soprusi morali e corporali, è stata proprio la condivisione “corale” essa stessa dei maltrattamenti.
Per trent’anni, dal 1964 al 1994, questa “consuetudine” di oppressione e di coercizione è andata avanti indisturbata.
Dunque, il rapporto tra adulti e ragazzi come primo elemento di superiorità morale, come condizione di autoritaria autorità. Il tutto unito all’altro potere, quello ecclesiastico che è potere in quanto è autorità “morale”.
Siamo sempre sul piano di una moralità che viene tradita, stando a quanto invece predica sulla base dei Vangeli canonici. Siamo sempre sul piano dell’universalità: nulla può essere messo in discussione da chi si proclama voce di dio, espressione terrestre della volontà divina.
L’adulto che è anche prelato, ha quindi due poteri: è moralmente più in alto due volte del ragazzo che canta nel coro. Non c’è nessun rapporto tra eguali pur nelle legittime e ovvie differenze dettate dalla conoscenza della materia insegnata. Questa dovrebbe essere l’unica autorità presente: quella tra insegnante e studente. Ma senza il senso di colpa che spesso a scuola abbiamo avvertito quando con timore guardavamo dal basso in alto chi ci istruiva e stava su una cattedra (che ormai pochi ragazzi e ragazze ricorderanno, e per fortuna…) rialzata rispetto ai banchi: proprio per dare la sensazione del comando, dell’auctoritas, della disciplina da rispettare.
Don Lorenzo Milani ne scrisse molto bene in “Lettera ad una professoressa” di quel “militarismo” scolastico di studenti che venivano fatti alzare all’unisono quando entrava il direttore con il pronunciamento di un sonoro: “Attenti!“. Come se fosse una caserma e non un aula di una scuola della Repubblica.
I ragazzi di Ratisbona supplicavano i genitori di venirli a prendere, di sottrarli a quel terrore. Vi sono centinaia di lettere che lo testimoniano. Dunque quello non era un coro di voci bianche, non c’era nessun amore per la musica e, laddove ci fosse anche stato, le percosse e i maltrattamenti ne hanno spento il sacro fuoco che alimenta la passione per l’arte, per la melodia, per quella unità di differenze di tonalità che è la bellezza dell’armonia.
L’ultima considerazione è il rapporto tra il potere clericale e il mondo laico.
Per secoli c’è sempre stato un dito puntato contro i laici, i devoti (o più o meno tali) fedeli: fedeli per convenzione, per paura, per naturale ispirazione e credenza.
Il dito puntato della peccaminosità: viviamo nel cosiddetto “peccato originale” e solo attraverso il magistero della Chiesa se ne può uscire. Con i sacramenti, con l’osservanza dei precetti e delle regole.
Chi ne è fuori è condannato. Almeno lo era un tempo. Con ignominia.
Papa Francesco, anche per gli agnostici come il sottoscritto, ha in parte squarciato un velo, aperto ad una speranza: che dall’alto della sua curia romana e non da un piccolo, ma grande, borgo sperduto come Barbiana, si possa trasformare la Chiesa cattolica in una struttura non punitiva, non conservatrice di disvalori che contrastano con i precetti evangelici. Ha rimesso in moto la lezione di Giovanni XXIII: la distinzione dell’errore e dell’errante.
Va corretto l’errore e va compreso l’errante.
Sono passi in avanti per il mondo ecclesiastico e per chi ritiene che esprima quella verità nella quale, personalmente, non solo non ho la minima fede ma anche molta poca fiducia.
Nonostante Francesco, la Chiesa rimane un potere e un potere si porta sempre dietro un retaggio di incrostazioni che corrodono i migliori propositi di rinnovamento e di comprensione. Di inclusione piuttosto che di esclusione.
La vicenda del coro di Ratisbona non è un tema su cui chiedere alla Chiesa pentimento. Non servirebbe a nulla. Ma ad una cosa ci serve: a comprendere sempre meglio determinate contraddizioni umane prima ancora che divine; laiche e clericali al tempo stesso.
Il prete è sempre un uomo. L’uomo può anche essere un prete. Quindi dobbiamo, per capire il comportamento del prete, conoscere sempre meglio il comportamento dell’uomo.

MARCO SFERINI

19 luglio 2017

foto tratta da Pixabay

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