Astensionismo, una scelta politica

Dopo decenni nel corso dei quali opinionisti e politologi avevano snobbato il fenomeno, definendolo al massimo come “fattore fisiologico di allineamento al funzionamento delle democrazie occidentali” adesso tutti, all’improvviso,...

Dopo decenni nel corso dei quali opinionisti e politologi avevano snobbato il fenomeno, definendolo al massimo come “fattore fisiologico di allineamento al funzionamento delle democrazie occidentali” adesso tutti, all’improvviso, scoprono l’astensionismo come fattore determinante negli equilibri politici.

In questo senso si nota un’operazione ardita di analisi politica compiuta da Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del Corriere della Sera nell’editoriale apparso il 26 Novembre.

In quel testo, infatti, si cerca di assommare la percentuale di voti prevista dai sondaggi per il M5S (circa il 30%) a una quota di “non voto” (astenuti, bianche, nulle) calcolata al 28%, affermando che questo 58% dell’elettorato sarebbe, in sostanza, accomunato dall’idea di quella che è stata definita “antipolitica” (in realtà nel corso dell’articolo Galli della Loggia si sofferma parecchio sulla presunta “eversività” del voto rivolto al M5S.)

Insomma, ci si comincia ad occupare dell’astensionismo ma la sommatoria con il voto del M5S appare del tutto arbitraria così come sembra del tutto forzata l’assegnazione del fenomeno della diserzione dal voto alla categoria dell’antipolitica.

Prima di tutto emerge una questione di quantificazione e le previsioni ampliano l’area dell’astensionismo rispetto a quanto indicato da Galli della Loggia.

Un’astensione, in varie forme (non partecipazione al voto, scheda bianca, annullamento della scheda) che assommerebbe, infatti, quasi al 40% dell’elettorato: più o meno 18 milioni di elettrici ed elettori.

Una disaffezione in crescita verticale, se si pensa che l’Italia è sempre stata all’avanguardia nella partecipazione al voto: tra il 1948 e il 1987 le elezioni politiche fecero registrare percentuali superiori al 90%, con un calo (molto contenuto, in verità rispetto alle percentuali odierne) nelle occasioni riguardanti il Parlamento Europeo.

Dopo aver resistito su quote raccolte attorno ancora al 75% con punte dell’80% nel corso del primo decennio del nuovo secolo, a partire dalle europee 2014 si è registrata una brusca discesa nella partecipazione al voto e nelle ultime occasioni riguardanti elezioni amministrati e regionali si è fatto grande fatica a superiore il 50% (con il record negativo delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna al 37%).

Unica eccezione in controtendenza quella del referendum del 4 dicembre 2016 sulle deformazioni costituzionali proposte dal governo Renzi: si tornò nell’occasione a quote attorno al 70% e il 60% dei voti validi espressero un secco NO.

Un risultato che non ha scosso però la tendenza complessiva all’autoconservazione autoritaria del regime di governo, tanto è vero che ci troviamo di fronte (per la terza volta in dodici anni) a una legge elettorale che presenta evidenti profili di incostituzionalità (liste bloccate, violazione del concetto di voto personale) quale testimonianza di un disprezzo complessivo della volontà di elettrici ed elettori che si erano pronunciati con chiarezza per un ripristino della centralità del Parlamento: concetto ancora una volta ignorato.

Un serio ragionamento sul tema dell’astensionismo ci dice, prima di tutto, che va rifiutata la tesi semplicistica, sostenuta anche da autorevoli politologi dell’allineamento al “trend” delle grandi democrazie occidentali: quando si arriva al punto che il partito del “non voto” appare essere in grado di costituire la maggioranza relativa significa che la democrazia attraverso un periodo di difficoltà vera.

In queste condizioni appare singolare che le principali analisi sulle prospettive di voto apparse sui principali quotidiani non prendano in considerazione il fenomeno dell’astensionismo, limitandosi a registrare le percentuali delle liste in competizione, tralasciando le valutazioni, che pure sarebbero necessarie, sulla realtà sociale, economica, culturale di questo dilagante fenomeno.

Soprattutto, ed è questa la tesi che s’intende sostenere in quest’occasione, l’astensionismo deve essere considerato come una vera e propria “scelta politica” per milioni di elettrici ed elettori, e tale deve essere considerata senza che alcuno possa essere autorizzato ad annetterselo: come aveva tentato, invece, i radicali negli anni’80 e ’90 quando presentavano la lista e, contemporaneamente (e paradossalmente) invitavano alla crescita del “non voto” per cercare, nel dopo elezioni, di considerarne la crescita come un loro esclusivo successo.

In realtà l’analisi del “ non voto” ha cambiato di segno nel corso degli ultimi anni.

Nel “caso italiano” quest’analisi è da sviluppare collegandosi a quella della trasformazione del sistema dei partiti, con il passaggio dal partito di massa a quello “pigliatutti”, poi a quello “elettorale personale” se non, addirittura, al partito –azienda, fino ai casi più direttamente riconducibili a un’esasperata personalizzazione della politica. Personalizzazione arrivata al punto di inserire il nome del leader nello stesso simbolo elettorale.

In questo modo è avvenuta una sorta di “scongelamento” nel rapporto diretto tra i partiti e le fratture sociali individuate, a suo tempo, da Lipset e Rokkan, con un indebolimento della fedeltà ai partiti e una crescita della cosiddetta “volatilità elettorale” al punto che, in questa modificazione di rapporto con la partecipazione elettorale, settori importanti di “elettorato razionale” hanno accusato un vuoto di rappresentanza che ha condotto, alla fine, alla diserzione del voto.

Un “elettorato razionale” che era stato, in passato, portato a scegliere soltanto in relazione alla possibilità di massimizzazione dei propri desideri (non solo materiali, ma anche ideali e culturali) quindi esprimendo un voto che teneva assieme il senso d’appartenenza e l’opinione specifica.

I fattori in campo, dunque, nella costruzione di questo processo di crescita dell’astensionismo appaiono essere almeno tre:

1)      Quello derivante dall’analisi della vecchia scuola statunitense dell’astensione come sorta di volontà d’espressione di un mantenimento dello “status quo” (le cose vanno bene così, perché dovrei disturbarmi per andare a votare?);

2)      L’altro, di origine più recente e più propriamente europea, dell’espressione inversa a quella precedente di una protesta indiscriminata rivolta al “sistema”. Una protesta che oltrepassa, nell’insoddisfazione, il pur rutilante populismo imperante in tutta Europa e che trova sue significative espressioni in Italia, sia al governo, sia all’opposizione;

3)      L’ultimo fattore, derivante dallo specifico della situazione italiana, dell’assenza di rappresentatività politica sul piano complessivo da parte di soggetti tendenti a un’interpretazione complessiva dei fenomeni politici e sociali anche in forma ideale e di proposta di mediazione politica. Fattore determinante per quell’“elettorato razionale” che non trova più soggetti organizzati capaci di esprimere interesse generale e, di conseguenza, abbandona l’idea di sentirsi rappresentato da un sistema composto di elementi troppo distanti dalla propria visione della politica. E’ la sinistra, proprio per fornire una valutazione più ravvicinata del fenomeno e a soffrirne maggiormente in ragione di una assenza di “identità” che – appunto – per i soggetti della “gauche” aveva rappresentato un elemento decisivo per l’appartenenza politica e per la conseguente espressione di voto.

Mancano all’appello insomma una buona quota di quello che in passato era stato indicato come “ voto di appartenenza” e anche una fetta importante del voto d’opinione.

Così come non è possibile sommare l’astensione con il voto del M5S per stabilire l’ampiezza dell’area dell’antipolitica, neppure si può pensare di raccogliere nuovamente consensi nella disaffezione soltanto pretendendo di interpretare semplicisticamente attraverso slogan le espressioni più facili dell’insoddisfazione dei bisogni di massa.

Sottolineando ancora come nessuno possa pretendere (al di là dei facili propagandismi) di proporsi come “argine” alla crescita della disaffezione politica ed elettorale, essendo ormai questa un fenomeno assolutamente strutturato al sistema.

Neppure colmerà il vuoto l’ossessivo uso dei social network e, più in generale, del web come si prevede per la prossima campagna elettorale: si tratta, infatti, di strumenti dedicati agli ultrà, ai già super convinti, ai tifosi che li useranno per insultarsi e screditare i diversi candidati avversari, non di più.

La complessità sociale richiede l’elaborazione di una articolazione di ideazione politica riservata insieme al progetto come al programma.

Un discorso quello sull’astensionismo e la cosiddetta antipolitica da riprendere in profondità anche da parte di quanti pensano di cimentarsi in chiave coerentemente alternativa con l’arena elettorale: fondamentale sarebbe recuperare in pieno l’identità costituzionale come base di principio per una presenza istituzionale efficacemente collegata con il quadro attivo di lotte sociali.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Pixabay

categorie
Franco Astengo

altri articoli