Una “Unidad popular” per la sinistra di alternativa

“Times are hard when things have got no meaning. I’ve found a key upon the floor, maybe you and I will not believe in the things we find behind...

Times are hard when things have got no meaning. I’ve found a key upon the floor, maybe you and I will not believe in the things we find behind the door. So what’s the matter with you? Sing me something new. Don’t you know…the cold and wind and rain don’t know they only seem to come and go away.
Stand by me, nobody knows the way it’s gonna be.
Così cantavano nel lontano 1997 gli Oasis nella loro splendida “Stand by me“. Parole, quelle dei fratelli Gallagher, che sembrano quasi pensate per descrivere l’attuale condizione della sinistra (o forse sarebbe meglio dire delle sinistre) in Italia, una condizione dove prevalgono incertezza, smarrimento e, certamente, frammentarietà, la quale ultima appare sempre più come una condizione sempiterna, e non dunque contingente come può essere nei primi due casi, del mondo progressista nostrano. È proprio sulla sua frammentarietà che mi vorrei soffermare, poiché non sono convinto che la sinistra sia destinata a rimanere disunita, e non semplicemente per mie tendenze antideterministiche, ma perché credo che il modo in cui viene costantemente posto il problema dell’unità a sinistra sia sbagliato.
Tale problema, infatti, può essere affrontato secondo diversi approcci.
Vi sono quelli che, più o meno interessati all’evolversi in un senso o in un altro delle vicende riguardanti il campo della sinistra, si limitano a schernire le innumerevoli sigle componenti la galassia rossa, spesso nate in seguito a scissioni da altri partiti ai quali dovrebbero contendere lo scettro di partito principale della sinistra stessa.
Vi sono, poi, quelli convinti che questa frammentarietà sia un male inspiegabile e il principale motivo per cui non si vincono le elezioni, proponendo come cura improbabili coalizioni che mettano insieme tutti i partiti o movimenti esistenti a sinistra dell’avversario elettorale di turno, e cioè tanto forze centriste o moderatamente progressiste, quanto forze della sinistra radicale, finendo così per eliminare di fatto ogni differenza intercorrente tra le stesse. Come si vede, questo tipo di approccio parte da un’analisi del problema prettamente elettoralistica e di conseguenza offre una soluzione altrettanto elettoralistica (ogni riferimento ad adoratori del centrosinistra o dell’Ulivo X.0 è puramente voluto).
Ancora, è possibile trovare chi nega in radice che quello della mancata unità a sinistra sia un problema; anzi, in tal caso l’unità viene vista come dannosa in assoluto, anche se riferita esclusivamente a movimenti di sinistra radicale tra loro indipendenti. Si tratta dell’approccio tipico dei classici duri e puri, coloro che, con una certa presunzione, sono convinti di bastare a se stessi, non tanto dal punto di vista del consenso elettorale (non è questo, infatti, l’approccio che sto seguendo né che, come si sarà intuito, condivido), quanto dal punto di vista ideologico. La Rivoluzione non è un pranzo di gala, si dirà. Certo non è neanche guardarsi in continuazione allo specchio e ripetersi quanto si è più rivoluzionari degli altri.
Io ritengo, invece, che per affrontare la questione dell’unità a sinistra non si possa prescindere da tre presupposti, i quali consentono di cogliere la fallacia dei due opposti approcci al problema sopra esaminati.
Anzitutto, se si parla di (assenza di) unità a sinistra è perché, banalmente, esistono più soggetti della sinistra diversi tra loro: importante allora sarà capire perché e quanto siano diversi tra loro questi soggetti, esaminando la loro visione della società e quindi il tipo di cambiamento che vogliono imprimere ad essa.
Se, a titolo di esempio, un partito lotta per un maggior intervento pubblico nell’economia e un altro, invece, si propone di realizzare una progressiva liberalizzazione in tutti, o quasi, i settori dell’economia di un paese, su che basi potrebbe reggersi, qui, l’unità? È evidente che, sebbene magari il secondo partito si consideri o sia considerato di sinistra, l’unità qui non sarebbe concretamente possibile, o comunque non sarebbe destinata a durare. Unità dunque, ma tra chi e a quali fini?
In secondo luogo, si deve sempre tenere a mente che diversità non è una parola negativa: la diversità può essere una grande ricchezza ed è, a mio avviso, la più grande arma che abbiamo per realizzare l’unità. Ovviamente non mi riferisco alla diversità in ogni sua accezione, rimanendo esclusa dai miei intenti quella di contrarietà o inconciliabilità (come potrebbe essere nell’esempio su fatto).
Mi riferisco, semmai, alla diversità come particolarità, quella che caratterizza ciascuno di noi nell’osservare un fenomeno o nel tentare di raggiungere un obiettivo, pur condividendo sostanzialmente quasi o tutte le idee di qualcun altro, o semplicemente un’impostazione teorica di fondo. Se l’obiettivo è in buona sostanza identico, la presenza di più sfumature circa i modi in cui realizzarlo deve essere vista come una fortuna, non come un ostacolo, sempre che non si pretenda di avere la verità in tasca.
Infine, l’analisi della questione dell’unità della sinistra pecca da troppo tempo nel non porre l’accento su quale debba essere la vera base di questa unità: l’unità tra le massi popolari subalterne e tra queste ultime, i partiti e i sindacati che si propongono di rappresentarle. Il processo dell’unità non può essere calato dall’alto, salvo risolversi in un’operazione da professionisti della politica priva di futuro, ma deve svilupparsi dal basso, coinvolgendo le masse a cui si vuol dar voce, rendendole protagoniste, e dal basso trovare continuamente nuova linfa. Spesso ci si dimentica che molte delle proteste e degli scioperi che diedero il là alla Rivoluzione d’Ottobre nacquero spontaneamente grazie all’iniziativa di tante operaie e tanti operai russi che non si curarono delle strategie dei socialisti, che quella Rivoluzione erano chiamati a compiere. In tal senso è sempre utile richiamare il monito di Majakovskij, allorché invitava Il Partito a non rinchiudersi nelle sue segrete stanze e a restare amico dei ragazzi di strada.
Fatte queste necessarie precisazioni, con riferimento allo stato attuale della politica italiana e globale io sono sempre più convinto che la vera unità che manca non sia quella della sinistra tout court, ma quella della sinistra radicale (che Pippo Civati chiamerebbe sinistra normale), ergo di quello spazio di vera alternativa che non può non avere l’ambizione di trasformare la società in senso, appunto, radicale. Stretti tra il neoliberismo, sia quello di destra sia quello di sinistra, e il riemergere dei fascismi, vi è la necessità e, insieme, l’opportunità di condurre ad unità quelle che io reputo le migliori anime della sinistra radicale, ai fini di una sintesi laica che abbracci le peculiarità di ognuno.
In particolare, mi riferisco al comunismo libertario di Rifondazione Comunista, all’ecosocialismo di Sinistra Italiana, al radical-socialismo di Possibile e all’anarco-municipalismo dei movimenti che sostengono Luigi De Magistris.
Queste, attualmente, le uniche forze politiche che credo possano interpretare coerentemente il bisogno di radicalità e porsi come promotrici di un movimento di massa nel quale vada a strutturarsi l’intellettuale collettivo di gramsciana memoria. A pensarci bene, la presenza di queste forze e la loro eventuale auspicabile unione ricorda molto la “Unidad Popular” di Salvador Allende, coalizione con la quale quest’ultimo riuscì a vincere le elezioni presidenziali cilene del 1970 e che comprendeva socialisti, comunisti, radicali e cattolici progressisti.
Quello che, in ogni caso, un grande movimento di sinistra radicale deve fare per non farsi travolgere dalla marea neoliberista né da quella sovranista è ricordare l’insegnamento di Marx: per trasformare la realtà è necessario anzitutto conoscerla in ogni suo piccolo dettaglio, il che consente di coglierne tutte le contraddizioni e, in un secondo momento, di trovare le soluzioni più adeguate alla trasformazione. D’altronde, proprio su questa logica si basava la distinzione tra socialismo scientifico e socialismo utopistico tracciata dal filosofo di Treviri.
E allora tocca istruirsi, agitarsi, organizzarsi senza lasciare nulla al caso (e neanche al capitale e alla reazione fascista), soprattutto ora che, come cantavano gli Oasis, “i tempi sono difficili e ogni cosa sembra aver perso di significato”. È ora di trovare, insieme, la chiave, magari “singing something new”. Nessuno può sapere, ora, cosa ci sarà dietro la porta: potrebbe essere una “Champagne Supernova”, o anche solo un po’ di “Cigarettes & Alcohol”.
In quest’ultimo caso ci faremo una bevuta per dimenticare e ci rimetteremo all’opera, ricominciando dall’inizio.

ANTONIO MOSCA

5 aprile 2017

foto tratta da Pixabay

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