Una nave da guerra chiamata Bush

Paradossi Usa. Nell’America di Trump capita anche questo: piangere e rimpiangere il presidente del «nuovo ordine mondiale». Ma è proprio a lui, George H. W. Bush, morto ieri a 94 anni, che dobbiamo il caos in cui viviamo oggi

Nell’America di Trump può succedere che un suo predecessore, persona dalle maniere garbate – agli antipodi rispetto a quelle di The Donald – ma primo e massimo responsabile del caos che da una trentina d’anni sconvolge il Medio Oriente, e di rimbalzo il mondo, riceva encomi riservati a un grande presidente.

E sì, la volgarità di Trump, il suo disprezzo di regole condivise, gli insulti ad avversari e a giornalisti, fanno apparire roseo un passato che roseo non è, semmai il contrario: sono stati i decenni – segnati in mezzo mondo da conflitti e da politiche d’iniquità sociale – che hanno reso plausibile l’avvento al potere di un personaggio come lui.

Non è vero il contrario, come sembra invece affermare una certa narrativa prevalente, il cui ultimo capitolo riguarda appunto George Herbert Bush e che tende a rappresentare Trump come un imprevisto, un imbarazzante incidente di percorso, accaduto chissà perché, lungo una strada lastricata di decenni indimenticabili di buoni sentimenti, di fair play democratico, di altruismo verso i popoli.

Si può risalire a Ronald Reagan, con la sua acuta sensibilità verso i ricchi, per tanti versi il precursore di Trump, ma in realtà tutto inizia con George H. Bush, deceduto ieri a 94 anni, 41mo presidente degli Stati uniti. Eletto nel 1988, la sua è l’amministrazione che chiude la lunga epoca bipolare della guerra fredda e apre quella che dura fino ai nostri giorni. Segnata profondamente nella sua fase iniziale – e ne avrebbe determinato il prosieguo – dall’illusione di un mondo definitivamente unipolare e unilaterale, egemonizzato dunque da una sola superpotenza politica, economica, militare.

La prova generale del “nuovo ordine” avviene nel dicembre 1989, quando Bush lancia la Operation Just Cause a Panama, inviandovi decine di migliaia di soldati e centinaia di aerei per eseguire un mandato d’arresto nei confronti del dittatore Manuel Noriega. Dura poco l’operazione, costa una ventina di caduti tra i militari americani e diverse centinaia tra i panamensi. 442 esplosioni nelle prime 12 ore d’invasione sono registrate dal sismografo di Panama, una ogni due minuti. L’intervento avviene a un mese dalla caduta del Muro e in vista dell’invasione dell’Iraq il 17 gennaio 1991.

Da allora sappiamo com’è andata la storia, nessuno dimentica la retorica dell’«interventismo democratico», del regime change e della democracy promotion che ha punteggiato momenti salienti di questi decenni, ed è con il primo conflitto del Golfo, spettacolarizzato dalle tv con la supervisione di Pentagono e Cia, che i bombardamenti, la guerra, diventano un’opzione “normale”, che non ha neppure bisogno della ratifica dell’Onu, fino ad arrivare alle porte di casa nostra, in Jugoslavia.

Il paradosso per chi osserva l’America in queste ore, nelle quali si compiange un presidente defunto e s’irride al presidente in carica, è che il primo è carico di enormi responsabilità rispetto al mondo in cui viviamo oggi e che il secondo, in questo mondo, si destreggia, goffamente e gaglioffamente, certo, ma per problemi in gran parte creati dai suoi predecessori, tutti uniti, loro, nel considerarsi l’un l’altro esempi di moralità e probità patriottiche.

Non vogliamo banalizzare, né tanto meno relativizzare il problema Trump, né il pericolo – e non è parola esagerata – che corre con lui il sistema democratico americano. Ma proprio per questo è importante mettere in chiaro il filo che lo lega ai suoi predecessori, in specie a quelli repubblicani – i due Bush e Reagan -, e occorre risalire agli anni Novanta, quando l’unipolarismo americano si rivela ingestibile – con costi immensi per chi ne è vittima – fino a che con Obama il sistema ammette che l’imperial overstretching – l’ampliamento a dismisura della potenza militare – può essere un boomerang per l’America stessa, sotto l’assedio economico di potenze emergenti, la Cina in primis.

In un tweet un ammiratore del defunto presidente ricorda la portaerei a lui intitolata e scrive: «Ci sarà sempre una nave da guerra col nome di George H. W. Bush. Non ci sarà MAI neppure una barca a remi con il nome di Donald Trump». Questo potrebbe far onore a Trump così come gli insulti che gli piovvero addosso, nei giorni dei funerali di McCain, quando si vantò di avere schivato la leva e il Vietnam diversamente dal venerato senatore “eroe” di quella guerra.

Bisognerebbe scomodare Freud, in un paese diviso dove evocare la guerra e le guerre, per alcuni significa eroismo e onore, per molti altri esperienze da non ripetere mani più. Rimpiangere Bush, valorizzandone i tratti umani (al netto delle denunce di quattro donne palpeggiate…) e omettendone le imprese militari, come accade in queste ore, anche da parte di chi l’avversò, è cullarsi nel pensiero di un’America che non c’è più e non può più esserci. Il dramma è che l’uscita da quell’epoca, tentata un po’ disperatamente da Obama, ora è nelle mani un di paziente psichiatrico.

GUIDO MOLTEDO

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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