Un nuova, moderna lotta contro l’opportunismo dei riformisti

Il controllo globale dell’economia presuppone un controllo altrettanto globale dell’informazione. Quindi la gestione dei grandi gruppi editoriali, dei potenti “network” televisivi e la costruzione di tutta una sorta di...

Il controllo globale dell’economia presuppone un controllo altrettanto globale dell’informazione. Quindi la gestione dei grandi gruppi editoriali, dei potenti “network” televisivi e la costruzione di tutta una sorta di morale condivisa che sia il nuovo senso comune cui, più o meno ognuno di noi, deve uniformarsi per credere alla versione della “normalità” del sistema in cui viviamo.

Tutto va in questa direzione: normali sono i rapporti che ci vedono protagonisti nel microcosmo quotidiano dentro a tanti macrocosmi che sono, invece, piano di sviluppo di adattamenti del capitalismo a quelli che possono essere inciampi dovuti tanti alle crisi endemiche che lo perseguitano (essendo il capitale una contraddizione per eccellenza, si trascina dietro soprattutto queste storture) o a improvvise prese di coscienza di popolazioni ipersfruttate che decidono che è giunta l’ora di dire basta e che paralizzano, ad esempio, un grande paese come la Francia.

Nulla, dunque, deve mai deve essere dato per scontato e soprattutto non si deve pensare che il capitalismo sia un sistema imperturbabile, relisiente, che reagisce come un liquido alle sollecitazioni dei confini solidi in cui è inserito: vi si adatta, ma se disperso finisce col non trovare più alcun contenitore che lo protegga dall’assemblaggio delle sue contraddizioni che, alla fine, sono il principale collante e, potenzialmente, il principale fenomeno di esplosione che ne può causare la morte, il superamento necessario.

Per troppo tempo il primo tentativo riuscito, nel suo farsi e divenire tale, di andare oltre il sistema di produzione capitalistico, la Rivoluzione russa, è stata considerata nel suo negare sé stessa (nello sviluppo della sindrome stalinista) l’unica forma di espressione del comunismo come movimento capace di trasformare il mondo.

Nei confronti del socialismo reale, statalizzazione e burocratizzazione barbara dei princìpi libertari del comunismo marxiano ed engelsiano (ma soprattutto luxemburghiano) sono diventate la fisionomia essenziale ma altrettanto semplicistica, e per questo adatta ad ogni tipo di creazione opportunistica per la denigrazione dell’alternativa al capitale venutasi a creare con l'”assalto al cielo“.

Smontare questo impianto narrativo infarcito da temi etico-politici legati a stermini di massa frutto di dittature sanguinarie che nulla avevano a che spartire con la voglia di liberazione umana dalla schiavitù del lavoro salariato, del profitto e dello sfruttamento dell’essere umano su sé stesso e sulla natura, è stato il compito di una rivisitazione dell’attualità del comunismo stesso che, però, sovente si è trasformata in una negazione eguale e contraria al tempo stesso dello stalinismo.

L’involuzione autoritaria generata da Stalin e dai suoi corifei ha distrutto l’origine rivoluzionaria del bolscevismo sovietico. La socialdemocrazia in Europa occidentale ha pensato bene di diventare “rispettabile” abbandonando i ferri vecchi del passato, edulcorando le terminologie che, se non altro per natura semantica, non sono mai separabili da ciò che rappresentano fuori dal “mondo delle idee” di origine platonica.

Scrive Trotzky riferendosi al rapporto tra stalinismo e bolscevismo (che tanti anche noti opinionisti politici tenderebbero invece a unificare ed amalgamare ingenuamente o opportunisticamente…) e incorniciando benissimo l’evoluzione da un lato dei fenomeni statali condizionati dalle vicende globali, dall’altro mettendo in guardia i comunisti dal ritenere fallito il presupposto di cambiare il mondo, di rovesciare il sistema soltanto perché ciò che si è tentato è stato divorato dal sistema stesso e trasformato nel suo esatto contrario: la rivoluzione non divora i suoi figli, ma divora sé stessa. Ma non per questo la forza rivoluzionaria deve essere considerata spenta per sempre, soffocata e annichilita senza più possibilità di risorgimento.

Epoche reazionarie come la nostra non solo disintegrano e indeboliscono la classe operaia ed isolano la sua avanguardia, ma abbassano il generale livello ideologico del movimento e gettano il pensiero politico indietro di molti stadi. In queste condizioni, il compito dell’avanguardia è, soprattutto, quello di non lasciarsi trasportare da questa corrente: essa deve nuotare controcorrente. Se uno sfavorevole rapporto di forze le impedisce di mantenere le posizioni politiche che aveva vinto, essa deve almeno conservare la propria posizione ideologica, perché in essa trova espressione l’esperienza passata pagata a caro prezzo. Gli stolti considerano questa politica come ‘settaria’. In realtà è l’unico modo per prepararsi alla tremenda ondata in avanti della prossima marea storica.
(28 agosto 1937).

Così, i comunisti, liberi dallo stalinismo e dal dogma governista delle socialdemocrazie, si sono trovati a dover reinventarsi un percorso su cui tentare la “rifondazione” di sé medesimi. Una tragedia che ha rischiato sovente di trasformarsi in farsa: un laboratorio tutto nuovo che nel 1991 ha riunito in sé particolarismi opposti e culture interpretative dicotomiche sul comunismo stesso.

Ne hanno scritto ampiamente anche comunisti che hanno ricoperto incarichi di governo, definendo il comunismo “la fenice rossa“, che risorge dalle sue ceneri, come l’Araba fenice. Ma il mito vuole che il volatile prodigioso, dopo aver vissuto cinquecento anni, si appartasse su un albero (ironia della sorte una quercia come quella del PDS di Occhetto e di tanti comunisti convertitisi al riformismo strutturale socialdemocratico) e attendesse che i raggi del sole la incenerissero. Erodoto afferma che però questa non era la morte della fenice: quella che gli egiziani chiamavano in origine “Benu“, tornava alla vita e il ciclo si ripeteva all’infinito.

Sarebbe un dramma per il movimento comunista: ripetersi all’infinito vorrebbe dire non riuscire mai a vivere veramente per sempre, a rovesciare il capitalismo e a creare una società di liberi e uguali, di federati e di produttori sociali, senza più alcuna costrizione, senza più Stati, senza più economie di mercato.

Ventotto anni dopo, in Italia, possiamo dire di non essere riusciti a far prevalere quel nuovo “piccolo partito dalle grandi ragioni” (definizione che si può comodamente attribuire primigeniamente tanto a Democrazia proletaria quanto successivamente al PRC), proprio perché costretto tra il configurarsi come elemento di riduzione del fenomeno antidemocratico delle destre tramite alleanze di centro-sinistra oppure come inefficace opposizione alle sinistre liberiste (quindi impropriamente definite “sinistre“) ingiustamente ritenute più pragmatiche e laboriose nella difesa del lavoro mediante operazioni riformiste create con compromessi al ribasso per le classi più deboli.

Il vero pragmatismo sta nel non abbandonare la ragionata, scientifica critica marxista, pensandola solamente come una mera ideologia: non lo è. Chi si è spostato su questa identificazione mentale, cercando la conquista del potere fine al potere stesso, proponendo ai lavoratori dei miglioramenti che contemplassero anche una protezione delle garanzie per il profitto privato, ha fatto come Bernestein.

A questo proposito, Rosa Luxemburg ci aiuta a comprendere l’eterno ritorno della voglia riformistica a sinistra:

Bernstein, revisionando il programma socialista, ha cominciato ad abbandonare la teoria del crollo del capitalismo. Questa teoria è la pietra angolare del socialismo scientifico, rifiutandola, Bernstein provoca necessariamente il crollo di tutta la sua concezione socialista. Nel corso del dibattito egli, per mantenere ferma la prima affermazione, abbandona, una dopo l’altra, le posizioni socialiste.“.
(“Riforma sociale o rivoluzione”, parte II cap. 2, Prospettiva edizioni, 1996)

Gradualità, dunque, nel consumare quella voglia di stravolgimento dell’esistente e spegnimento delle coscienze critiche consequenziale. Altrimenti detto: opportunismo.

Ce n’è molto a sinistra, anche oggi. E chi non si adegua viene tacciato di essere “estremista“, “sognatore“, “utopista“, “settario“. Guarda caso chi fa sfoggia di questi epiteti gioca la stessa partita del PD e di Liberi e Uguali al governo, pensando così di sostenere la costruzione di un nuovo movimento dei lavoratori e degli sfruttati e, al contempo, di combattere energicamente le destre sovraniste che sono una concreta minaccia ma che da queste politiche liberiste traggono una linfa insperata.

La lotta contro le destre è imprescindibile. Quella contro l’opportunismo moderno della presunta sinistra di governo è necessario se non si vuole rendere vana l’imprescindibilità della prima battaglia in difesa di un terreno democratico su cui far rinascere la coscienza sociale, critica e anticapitalista.

MARCO SFERINI

20 dicembre 2019

Foto di Valentin Tikhonov da Pixabay

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