Traballano ma non mollano: la sciarada giallo-verde

Equilibrio di governo e nel governo. Il primo è necessario per mantenere rapporti di giusta distanza, per un mantenimento della reciproca indipendenza, tra i poteri dello Stato, mentre il...

Equilibrio di governo e nel governo. Il primo è necessario per mantenere rapporti di giusta distanza, per un mantenimento della reciproca indipendenza, tra i poteri dello Stato, mentre il secondo è indispensabile perché l’esecutivo possa funzionare e quindi assolvere il suo compito costituzionale.

Possiamo dire, alla luce delle recenti vicende tra Lega e Movimento 5 Stelle sul “caso Siri”, che in questo momento ci troviamo in assenza di un “equilibrio nel governo”, anche se alcuni commentatori politici giurerebbero scommettendolo rischiando il massimo, che siamo davanti ad un tira e molla, ad una sorta di sciarada istituzionale, per alzare i toni nel corso di una campagna elettorale per le Europee che vede contrapposte le forze del “contratto”.

Tuttavia una ipotesi di questa natura poteva ancora avere un significato plausibile fino al momento in cui il presidente del Consiglio Conte non aveva pubblicamente espresso la volontà di richiedere personalmente nella prossima riunione a Palazzo Chigi le dimissioni del sottosegretario: forse spinto dai Cinquestelle, forse no.

Comunque, se era ben conscio di provocare un effetto deflagrante, ha ottenuto questo scopo, con un Salvini che gioca su due fronti: con i giudici di Bologna che hanno “osato” emettere una sentenza che obbliga il comune ad iscrivere all’anagrafe due richiedenti asilo (e che contraddirebbe il celeberrimo “decreto sicurezza”) e poi con l’asse Conte – Cinquestelle.

La storia insegna che a sfidare troppi nemici si avrà anche “molto onore”, ma si finisce poi gambe all’aria: tuttavia Salvini marcia indefesso, minaccia di far saltare il governo dichiarando di aver perso completamente la fiducia nel presidente del Consiglio.

Il tema, dunque, è quello di una crisi istituzionale, di una rovinosa caduta del governo su un affaire che non è un punto di principio, una querelle che non porta con sé contrasti fondati su una interpretazione di norme o su provvedimenti dirimenti per l’economia dello Stato: si parla addirittura di ripresa dell’economia facendo cenno al magro 0,2% di crescita (tecnica) e quindi la compattezza di governo dovrebbe, in qualche modo, essere garantita ed eventuali regolamenti di conti potrebbero essere rimandati a dopo il voto.

Invece il “caso Siri” sembra una sorta di redde rationem, un via obbligata da cui non è possibile scostarsi se non con una frattura insanabile tra due forze di destra che già tanti danni hanno fatto al Paese e che finiranno per farne molti altri.

Perché da una possibile rottura dell’equilibrio nel governo non può che venirne uno slancio per la Lega ad una ricomposizione frettolosa di una destra (o centrodestra che dir si voglia) in cui non sarebbe più necessario alcun “contratto” per governare ma solo briciole di concessioni agli alleati minori: Forza Italia e e Fratelli d’Italia.

Se Salvini uscisse dalle urne del 26 maggio con un risultato superiore addirittura a quello conquistato dai Cinquestelle un anno e mezzo fa alle elezioni politiche, quindi oltre il 32% dei consensi, siederebbe al tavolo della ricomposta coalizione delle destre come dettatore (a piacere potete sostituire una vocale e leggere la frase in altro modo) di una linea politica completamente sovranista, dove gli spunti ormai pallidamente liberali di Forza Italia sarebbero un lontano ricordo.

I rapporti di forza politici sono tanto più necessari ed importanti se si legano a rapporti di forza sociali, ed oggi la Lega questi rapporti molteplici e multipli (matematicamente parlando) li ha e rischia di passare da un cancellierato condiviso con alleati di governo ad una specie di monocolore se si considerano Salvini e Meloni praticamente uniti nel nome del “sovranismo”.

I Cinquestelle diventerebbero una opposizione priva di forma, costretta al ruolo del PD di oggi: votare contro provvedimenti del passato firmati e controfirmati da loro stessi per tratteggiare una fisionomia di ritorno alle origini, come forza popolare interclassista, priva di connotazioni geopolitiche di vecchio stampo.

Ci troviamo innanzi ad una fase storica del presente in cui il classico “partito di lotta“, quello che la classe lavoratrice aveva creato in tutti gli stati del mondo, in tutta l’Europa almeno, è stato lentamente sostituito da quello che un costituzionalista come Ugo Rescigno avrebbe definito il “partito della mediazione-integrazione“, quindi tutte forze politiche dedite alla ricerca del consenso non attraverso il contrasto di classe bensì mediante l’a-classismo espresso molto bene nei giochi di una finta partecipazione democratica come quella, traslata dal continente americano, delle “primarie”.

E’ cambiato il mondo! Frase che risuona ovunque, banalissima, ma pur vera: dal passaggio liberale dal partito di lotta a quello della mediazione-integrazione (praticamente dalla socialdemocrazia dell’ex PDS-DS al PD), sono trascorsi anni in cui la destra moderata (e non solo) ha imparato ad ammansire le masse sfruttate ed è diventata classe politica mentre era classe padronale.

Questa è la grande intuizione del berlusconismo che ha modificato radicalmente la struttura del Paese, la sua composizione sociale e il suo architrave istituzionale.

La svolta renziana non ha fatto altro che confermare questa impostazione e allargarla a settori di una sinistra che è rimasta tale solo nominalmente, per raccattare qualche centinaia di migliaia di consensi con spauracchi del voto utile e spaventapasseri per chi voleva riavvicinarsi ad un voto “ideologico“, carezzando l’idea che ad una visione del mondo bisogna pur votarsi per fare politica anche indirettamente, mediante il voto.

Oggi il governo giallo-verde in crisi, che ha pienamente confermato la duttilità per i governi del moderno liberismo di questo impianto deflagrante per la democrazia repubblicana, rischia di implodere su un caso che in teoria nemmeno sarebbe dovuto esistere, visti i presupposti del “contratto di governo”, essendo Siri già stato giudicato per bancarotta fraudolenta e contrastando questo con la presenza negli organi esecutivi di condannati con sentenza definitiva.

Ma più delle parole valgono le azioni, più dei contratti valgono le strategie di lungo corso e le tattiche a breve termine.

La maggioranza ha retto sul “caso Diciotti”, ha salvato dal giudizio della magistratura il ministro dell’Interno: i grillini hanno ingoiato dunque rospi non da poco, ora probabilmente la misura è colma per un movimento che rischia molto il 26 maggio e che deve riabilitarsi agli occhi di un elettorato in fuga.

Cedere dall’altra parte, in casa leghista, sarebbe del resto mostrare una debolezza che non corrisponderebbe all’immaginario collettivo di un Salvini primadonna nell’esecutivo (pur non avendo la maggioranza dei ministri, visto che l’equilibrio si regge ancora sui numeri opposti a quelli dei sondaggi odierni, per cui sono i Cinquestelle ad avere la meglio attorno al tavolo di Palazzo Chigi) e vero arbitro della situazione dalla nascita del peggior governo della storia della Repubblica.

Quindi la sciarada si fa complicata, rischia di avvitarsi su sé stessa e di diventare un boomerang forse per entrambi i soggetti del “contratto” che finirebbero col mostrare agli elettori un quadro desolante, ancora una volta imperniato sulla difesa dell’indifendibile, con parole che contraddicono tutta la fiumana di selfie, video e post su Facebook e Twitter dove si difende la “legalità” come muro invalicabile per chiunque, dove “chi sbaglia paga”, dove l’onestà viene messa prima di ogni altra cosa, anche prima dell’umanità.

Il peggio deve ancora venire. Aspettate e lo vedrete.

MARCO SFERINI

4 maggio 2019

foto tratta da Wikimedia Commons

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