«The Donald» l’americano doc con cui confrontarsi

La Casa sbianca. Poiché è più americano lui che Roosevelt, Kennedy e Obama, tanto osannati dall’Europa. È con questo americano doc che l’Europa si deve confrontarsi

La sua ultima iniziativa è il benestare alla costruzione di mini missili atomici mentre ancora si plaude al discorso moderato sullo Stato dell’Unione, alla sua capacità di leggerlo per 80 minuti: un vero record dopo l’anno trascorso a temere i suoi 140 caratteri inviati all’alba al nemico di turno. Un precedente positivo per l’élite repubblicana, spiazzante per quella democratica. E l’Europa come la pensa? Potremmo noi europei capire in che cosa realmente consiste il che fare di Trump? E dunque non i suoi scatti di furia contro gli avversari, non la sua ignoranza in politica estera, non la sua fiducia nei generali e nell’apparato strategico-militare.

La novità è l’uomo politico che rilegittima l’universo dell’economia reale: dopo decenni di primato della finanza sovranazionale il suo America first again va compreso.

Intanto c’è la componente storica: l’isolazionismo è stato una costante del grande paese, orgoglioso di produrre e consumare con il minimo di relazioni con l’estero. Il cambiamento è maturato dapprima per volontà di Roosevelt e poi per paura dell’atomica sovietica. Da allora siamo vissuti all’ombra dell’American rule, e l’Italia lo sa bene. Per decenni stabile è rimasto l’intreccio tra la sua potenza militare e il consumo globale delle sue merci, dai film alle armi. Sino ai primi anni del nuovo secolo le élite Usa erano sicure di poter tenere anche il bandolo della matassa finanziaria. E invece nell’era dell’information technology il denaro transnazionale influenza sia gli investimenti senza patrie e sia la delocalizzazione dell’economia reale da patrie come l’America.

Il «palazzinaro« Trump lo sa. Da un lato c’è il suo business tutto americano con i suoi ingegneri, i suoi capisquadra, i suoi operai e dall’altro lato le banche che gli fanno intravedere profitti maggiori nell’esportare i suoi campi da golf in Turkmenistan. Trump va a annusare l’aria dell’élite finanziaria cosmopolita e si ritrova l’outsider che è. Come conservatore non ha legami nel partito repubblicano, come imprenditore edile ha subito bancarotte, come finanziere è un ultimissimo arrivato. È in un tale contesto che nasce la sua politica sull’economia reale e in parallelo su coloro che hanno perso il lavoro per la delocalizzazione, sul popolo che vede con il fumo negli occhi il mondo di New York e Las Vegas. Non interessa se tale politica è stata suggerita a Trump e da chi, interessa che l’abbia saputo utilizzare per entrare alla Casa bianca. E una volta lì, comportarsi come fosse un «suo» cantiere.

Si è sbarazzato di chiunque istituzionalmente abilitato a spiegargli come il presidente è tenuto a mostrarsi nelle occasioni istituzionali. Si è contornato di generali di sua fiducia perché anche nei cantieri servono le guardie di sorveglianza cui provvedere di mezzi, anche atomici.

Ha ingaggiato una lotta a coltello con l’Fbi e la Cia, perché gli si sottomettano come via via stanno facendo gli imperatori delle banche, i padroni delle ferriere, i piccoli imprenditori, ciascuno messo a tacere da iniziative economiche vantaggiose. Nemici rimangono ancora gli intellettuali cosmopoliti, gli scienziati ultra cosmopoliti, la gran parte dei potenti mass media con i loro seguaci, sono una minoranza nel paese ma ha quasi sempre esercitato un’egemonia culturale e politica. La macchia del maccartismo e del caso Nixon sono un’eccezione.
La regola è che coesistono più Americhe: quella del big business, quella dell’amministrazione autonoma degli stati, e poi il governo federale che meno si intromette e meglio è, e il mondo della scienza, della cultura, dell’arte, dalle potenti università agli istituti di ricerca. Ciascuna America ha il suo livello di potere.

Ai margini, forse ancor più della comunità nera, sono solitamente rimaste la classe operaia e la manovalanza generica, quella che vive in provincia e quella che lavora nei retrobottega, sono poi gli strati sociali direttamente colpiti dalla delocalizzazione e dagli 11 milioni di lavoratori clandestini, crumiri e dunque odiati. Il politico Trump ha promesso agli operai il rientro nel loro posto di lavoro e la cacciata dei crumiri. Non solo. Ha dato l’ostracismo alle culture urbane, messe ai margini in aperta contrapposizione con la tradizione dei Roosevelt, dei Kennedy e di Obama. Sono novità politiche di sostanza, e se la forma ci lascia a bocca aperta, chiudiamola questa bocca e cerchiamo di definire l’americano che ha conquistato la Casa bianca. Poiché è più americano lui che Roosevelt, Kennedy e Obama, tanto osannati dall’Europa. È con questo americano doc che l’Europa si deve confrontarsi. È con il suo che fare con le fabbriche che riaprono e con i muri che si alzano.

RITA DI LEO

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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