Rottura dell’unità e ritorno all’Italia come espressione geografica

Secessione. La regressione che, dagli anni Ottanta del Novecento, ha trasformato in profondità lo stato della democrazia in Italia, è aspetto della più generale regressione globale neoliberista

Lo Stato nazione in cui vivono gli italiani ha il momento fondante nel Risorgimento. Lì si trovano le basi della loro storia in comune, almeno fino ad oggi. Lì lo «spazio delle figure profonde» (l’espressione è di Alberto Banti e Paul Ginsborg) trova la propria articolazione nel progetto di coniugazione tra i lineamenti lunghissimi di una identità che ha precedenti culturali tra i più alti della storia europea, e le nuove necessità della costruzione di una nazione moderna. La necessità di superare quella «mancanza di società», per dirla con Giacomo Leopardi, ostacolo principale ad un rinnovamento dei «costumi» impossibile, senza la volontà, il faticoso sforzo di risorgere, di «rigenerarsi», secondo una parola largamente circolante nella letteratura del primo Risorgimento.

Lo sforzo di risorgere e rigenerarsi unisce strettamente l’obiettivo dell’unità nazionale a quello della costruzione di una società profondamente riformata tramite la costruzione di rapporti giuridici e sociali «democratici», cioè tendenti all’«uguaglianza», tra tutte le sue componenti. L’uno e l’altro aspetto sono coessenziali.

Nelle condizioni dell’Italia «espressione geografica» questa concezione del Risorgimento si presenta come una vera e propria «rivoluzione». Ed infatti l’espressione «rivoluzione italiana» ebbe largo corso nel Risorgimento, usata tanto da coloro che furono i protagonisti più conseguenti di quel processo che da coloro lo temevano e, in vari modi, vi si opponevano.

E partecipi di una «rivoluzione» si sentivano i democratici mazziniani, i democratici garibaldini, i democratici-socialisti alla Pisacane. Anche se non furono le loro prospettive, le loro speranze, quelle vincenti nel 1861, diventarono carne e sangue di culture, movimenti sociali, partiti politici per i quali l’Italia unita era l’essenziale precondizione per lo svolgimento della tensione egalitaria insita nella democrazia.

La storiografia di ispirazione gramsciana, sulla base di rigorosissimi studi tutti calati nelle cose, è stata critica degli esiti del Risorgimento, non certo del movimento risorgimentale in sé. Ha messo in luce le vischiosità degli svolgimenti storici, anche di quelli che si vogliono più radicali, ed ha proiettato altre tappe della «rigenerazione» risorgimentale nel corso della storia post unitaria. Ed in questo senso non ha niente di retorico e di storicamente improprio l’espressione di «secondo Risorgimento» utilizzata per definire la lunga continuità di alcune delle «figure profonde» nel contesto della Resistenza.

Fu un reale Risorgimento dalla necrosi progressiva che aveva portato la patria a morire l’8 settembre 1943. Fu la rigenerazione in una patria diversa che si voleva erede della «rivoluzione italiana» dell’Ottocento. «Redenzione», altra parola che, nel dopo 8 settembre, prospettava «semplicemente riattivazione di una storia d’Italia sottostante al fascismo. Niente tutti a casa! e niente morte della patria» (M. Isnenghi, 1999), ma Resistenza.

La Costituzione italiana rappresenta l’esito coerente della tensione verso una rinascita radicale dello stato/nazione italiano in grado di coniugare veramente processi di liberazione e giustizia sociale nel complesso della sua dimensione unitaria.

Sebbene in maniera non lineare ma attraverso durissimi conflitti, anzi in virtù di quei durissimi conflitti, cominciano ad innervarsi nel corpo della legislazione italiana, tramite vere «riforme di struttura», aspetti fondamentali della tensione egalitaria della Costituzione. Servizio sanitario nazionale, istruzione pubblica, impronta complessivamente progressiva del sistema fiscale, sono pensati ed attuati come funzioni di una più profonda unità dello stato/nazione nei primi trentacinque anni della storia repubblicana.

Dopo cominciano i prodromi del «grande balzo all’indietro», relativamente lento nella fase iniziale e poi progressivamente rovinoso verso la disgregazione del livello di coesione sociale raggiunto tra tutte le parti del paese. Livello, peraltro, non ancora soddisfacente.

La regressione che, dagli anni Ottanta del Novecento, ha trasformato in profondità lo stato della democrazia in Italia, è aspetto della più generale regressione globale neoliberista. Tratto distintivo della ragione neoliberista e delle sue costruzioni istituzionali è la messa in concorrenza di tutti i fattori che direttamente o indirettamente producono plusvalore: aree geopolitiche ben comprese. L’Europa di Mastricht, dove uno spazio formalmente unito è in realtà concepito e praticato come luogo di Stati messi in concorrenza, dove le vittorie di alcuni sono sconfitte per altri, ne è un esempio perfetto.

Se l’intesa sulle Autonomie differenziate percorrerà indenne l’iter parlamentare, cosa che nell’attuale congiuntura politica sembra probabile, l’Italia che ne uscirà avrà incorporato Mastricht al suo interno. La storia del Risorgimento, del primo e del secondo, sarà davvero finita, ed i lombardo-veneti, gli emiliani saranno definitivamente aggregati, in un sistema integrato di fornitura subalterne, all’area economica tedesca; in inevitabile concorrenza con altre sistemi-regione per l’ottimizzazione delle proprie risorse. Il tutto nell’ambito di un ordinamento fiscale sempre meno capace di fare fronte ad esigenze che in tempi diversi erano considerate universalistiche.

La combinazione tra la concezione della finanza pubblica alla base della flat-tax ed i contenuti della intesa sulle Autonomie differenziate, non possono avere che effetti dirompenti su una società la cui coesione è già stata abbondantemente logorata e sullo Stato nazionale che di tale coesione dovrebbe essere il garante. La flat-tax, infatti, altro non è che la riproposizione della ottocentesca tassazione proporzionale, contro la quale si sono battuti, in nome della «finanza democratica», i protagonisti del Risorgimento come rivoluzione italiana. Un altro gigantesco passo verso l’Italia come «espressione geografica».

Ma il piccolo filisteo governatore del Veneto, nelle vesti di un redivivo austriacante, potrà prendersi una rivincita storica sui grandi veneti: Ugo Foscolo e Ippolito Nievo.

PAOLO FAVILLI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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