Regno Unito: un crepuscolo già annunciato

Le prime luci di una fredda mattina inglese ci consegnano un risultato chiaro: sarà Brexit, senza se e senza ma. Dopo 3 anni e mezzo di colpi di scena...

Le prime luci di una fredda mattina inglese ci consegnano un risultato chiaro: sarà Brexit, senza se e senza ma.

Dopo 3 anni e mezzo di colpi di scena e logoramenti senza precedenti nella storia della società britannica, il responso del 12 dicembre non lascia più spazio a nessun dubbio.

L’Unione Europea perderà dal 31 gennaio prossimo la quinta economia del mondo, mentre dall’altra parte dell’atlantico il borioso Trump esulta e si congratula con il vincitore assoluto della tornata, colui che porterà a termine l’uscita del Regno Unito dalla fortezza europea, Boris Johnson.

Sono state elezioni particolari, perché sebbene si rinnovasse il parlamento di Westminster, tutto lasciava intendere che sarebbe stato una sorta di nuovo referendum. Nessun altro tema ha spaccato il regno della regina Elisabetta quanto quello riguardante la Brexit. In questo contesto esacerbato dalla violenza del linguaggio utilizzato dalla destra (possiamo dire mondiale), gli schieramenti sono saltati come mai prima d’ora: storici conservatori che votano contro il loro partito ed ex deputati laburisti che pur di mantenere la promessa della Brexit arrivano a sostenere il nemico giurato di sempre.

C’è un immagine molto significativa, che meglio di tante altre e di tante analisi e pseudo tali, incarna perfettamente il risultato elettorale e politico del voto nel Regno Unito. Alcuni giorni fa La Repubblica, seguendo la campagna elettorale di Johnson, notava come i lavoratori e gli operai del nord Inghilterra, la cosiddetta “fascia rossa” e storico serbatoio di voti laburisti, fossero presenti al comizio elettorale del leader conservatore, senza alcun entusiasmo per quello che stavano facendo: qualcuno tra i più anziani si chiedeva anche cosa mai avrebbero detto i loro nonni se li avessero visti in quel momento, ma tutti avevano la consapevolezza e la determinazione che per la classe operaia andare in una sorta di paradiso valeva ben un breve e tacito accordo sul votare per i tories e portare a termine la Brexit.

La città di Sunderland è, per certi versi, il simbolo di questa terra dove le differenze sociali sono cresciute moltissimo negli ultimi 10 anni e il lavoro è dato principalmente dalle fabbriche della Nissan. Proprio in queste zone periferiche, lontane dall’odiata capitale multiculturale londinese, nel referendum del 2016 il voto per il Leave prese valanghe di voti, aiutato indirettamente dalle direttive europee limitative in materia di pesca (l’altra grande risorsa economica dell’area).

Un esempio lampante, un’immagine significativa di quanto avvenuto, e che forse sfugge a tanti che fin dalle prime ore del mattino si sono affrettati a criticare “l’idealista” Corbyn per il suo programma di sinistra radicale, considerato assieme al quello delle elezioni del 2017 tra i più a sinistra dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.

Tralasciando per un attimo il funzionamento del sistema elettorale britannico, dove conta vincere nel maggior numero di collegi piuttosto che vincere a mani basse solo in alcune aree, il vero problema della sconfitta laburista sta nell’importanza stessa di questa elezione. Corbyn, con il suo coraggioso programma di sinistra, ha parlato alla testa dei cittadini, ha smascherato le menzogne di Johnson ed ha proposto piani di potenziamento del sistema sanitario, del sistema previdenziale e forti interventi nel mondo del lavoro per aiutare i più bisognosi e gli sfruttati. Mancava solo un argomento nella sua campagna, e non da poco: la Brexit.

Da sempre euroscettico, Corbyn ha cercato in tutti i modi di tenere unito il suo partito, dove una forte minoranza ha votato per lasciare l’Unione Europea nel 2016. Lo stesso discorso vale per l’elettorato laburista. Alla fine questa scelta ha logorato il partito e il suo stesso leader. I risultati migliori vengono ottenuti nei grandi centri urbani ma non nelle periferie, dove la classe lavoratrice fortemente indebolita dalle politiche neoliberiste, dalla deindustrializzazione e dalla crisi di questi ultimi 10 anni si è coperta gli occhi ed ha votato per i conservatori.

Corbyn ha perso per la sua mancanza di chiarezza sull’unico tema che davvero contava in queste elezioni; infatti il suo partito scende da 12 a 10 milioni di voti e perde ben 60 seggi rispetto a due anni fa, il peggiore risultato in termini di eletti dal 1983. E tuttavia, rispetto a quella storica e lontana debacle, i numeri dicono che i laburisti hanno registrato uno dei migliori risultati degli ultimi 36 anni. Questo non basterà per salvare la guida di Corbyn, che difficilmente rimarrà alla guida del Labour Party. Ma la futura nuova guida del partito non potrà esimersi dal notare che, sebbene sconfitti, i risultati elettorale riportati da Jeremy Corbyn siano stati comunque tra i più importanti negli ultimi 40 anni della storia laburista. La ripresa delle tematiche più care alla sinistra inglese e il superamento della Terza via introdotta da Tony Blair sono tra i risultati più importanti dell’attuale leader laburista.

Chi, come l’imbarazzante Renzi e buona parte dei media italiani indica nel programma di sinistra radicale di Corbyn il motivo della sconfitta mente o giudica con pressappochismo. Il partito Laburista è rientrato nel solco della sua storia ed è uscito dal torpore degli ultimi 15 anni.

La riorganizzazione del partito per i prossimi 5 anni dovrà tener conto della necessità di insistere su proposte alternative al neoliberismo e che sappiano radicalizzare la lotta contro le disuglianze sociali prodotte, tra i tanti, anche da Blair.

La tendenza di questo voto è la stessa che si avverte da anni in tutto il mondo occidentale, dove alle fasce più povere e disagiate dalla società arriva più facilmente, e in maniera più incisiva, il messaggio della destra che, in varie tonalità, incarna meglio la finta lotta contro l’establishment attraverso la paura, l’odio per il diverso e per gli altri poveri, la sicurezza e la retorica anti-tasse. Ha trionfato Boris Johnson, con l’aiuto del suo fidato stratega Dominic Cummings e della pletora di conservatori estremisti, sprezzanti verso il Parlamento e convinti che i grandi accordi commerciali e finanziari promessi dagli USA porteranno nuova ricchezza (per i ricchi) e nuove potenzialità in uno scenario pieno di incognite a non finire, alla faccia dei controlli qualitativi che nell’isola vengono effettuati sulle merci di importazione americana. Non è un segreto che in Gran Bretagna sia in atto da anni una lotta tra elité economiche sulla necessità o meno di abbandonare la gabbia dell’Unione Europea (e della supremazia delle banche sugli esseri umani) a favore di un mercato più globale e selvaggio. E alla fine ha prevalso quella più atlantista.

Ma a quale prezzo? La Brexit porterà con sé, nei prossimi anni, un serio pericolo di disgregazione del Regno Unito. Se in Irlanda del Nord non farà piacere agli unionisti sapere che Londra li “abbandona” momentamente per aggirare il problema del confine fisico tra le due Irlande, in Scozia il forte vento europeista protrebbe portare il parlamento di Edimburgo a richiedere un nuovo referendum sull’indipendenza, e questa volta il tema dell’adesione all’UE potrebbe essere davvero decisivo. La forza crescente dello Scottish National Party è figlia dei disastri neolibisti di Tony Blair e della conseguente perdita di consensi dei laburisti scozzesi, un tempo la forza predominante di tutto il territorio a nord del vallo di Adriano. Solo negli ultimi anni Corbyn è riuscito a porre un freno efficace a questa emorragia di voti con la ripresa delle tematiche fortemente sociali, ma che alla fine non ha retto al tema della Brexit.

Solo il tempo potrà chiarire gli scenari incerti e difficili che abbracceranno la terra di Albione, e i presupposti non sono dei migliori per i tanti che hanno così poco.

Il crepuscolo sta scendendo sul reame di Elisabetta II, e probabilmente seguirà una notte molto dura per le fasce più povere. Il futuro, ancora tutto da scrivere, è già alle porte, con la speranza che passata la tempesta, ci possa essere una nuova alba per tutti coloro che vogliono una società più giusta e uguale.

FABRIZIO FERRARO

14 dicembre 2019

Foto di Pete Linforth da Pixabay

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