Quell’assemblea che nemmeno Augusto volle sopprimere

Scrive Tacito: “Quando (Augusto) ebbe attratto a sé i soldati coi donativi, il popolo con le distribuzioni di grano, tutti con la dolcezza della pace, iniziò ad elevarsi a...
Ottaviano Augusto

Scrive Tacito: “Quando (Augusto) ebbe attratto a sé i soldati coi donativi, il popolo con le distribuzioni di grano, tutti con la dolcezza della pace, iniziò ad elevarsi a poco a poco ed a concentrare in sé le competenze del Senato, dei magistrati, delle leggi, senza che alcuno gli si opponesse, poiché gli avversari più forti erano scomparsi o sui campi di battaglia o nelle proscrizioni e gli altri patrizi, colmati di ricchezze e di onori, erano pronti a servirlo.” (Tacito, Annali, libro Primo, II).
Scrive Augusto: “Fui triumviro per il riordinamento della Repubblica per dieci anni consecutivi. Fui Principe del Senato, fino al giorno in cui scrivo queste memorie, per quarant’anni.“. (Augusto, Res gestae, 7).
L’attrazione del potere in un solo individuo o, comunque, in un particolare ambito fatto di poche persone, quindi nella creazione di un principato o di una oligarchia, è una tentazione storicamente, come si vede, accertata.
Quando Ottaviano, ancora giovinetto, viene adottato da Giulio Cesare, si creano per lui le condizioni di una rapida salita ai massimi livelli della Repubblica romana: in quello Stato dove nessuno poteva essere re, ma dove un re poteva diventare tale sommando su di sé una serie di “onori” e di cariche privilegiate sparse tra differenti poteri che collaboravano (più o meno) al mantenimento dell’ordine dato dai tempi della cacciata di Tarquinio il Superbo.
Eppure, nonostante la sete di potere, l’accentramento nella propria persona di tutte le cariche di quella Repubblica che si avviava al periodo del Principato, nemmeno Augusto fu tentato dal voler liquidare l’assemblea antica su cui Roma fondava sé stessa, il suo diritto, il suo dominio oltre i confini d’Italia.
Il parlamento di allora, il Senato, era col popolo romano un binomio inscindibile, seppure ben poco facessero questi alti esponenti della vecchia classe patrizia per la cosiddetta “plebe”.
Augusto inverte la rotta, segue le orme di Cesare: assicuratosi l’appoggio delle legioni macedoni con elargizioni di denaro, stretto il primo patto triumvirale con Antonio e Lepido, si scaglia contro una nobiltà aristocratica che lo ripugna, che ha abbruttito la città, che vuole solo conservare dei privilegi stancamente trascinati dietro le orme di una storia che sta rapidamente cambiando.
Quindi promette e realizza: promette miglioramenti per le classi popolari, toglie dall’indigenza numerosa parte della plebe, fa di Roma una città di marmo, sostituendola a quella ancora edificata in legno. Si assicura che gli approvvigionamenti di grano dall’Egitto arrivino e, quando, Antonio – spinto da Cleopatra – rivendica il dominio dell’intero impero per sé e la sua regina, quello che era ritenuto solo un “ragazzino”, grazie anche ad Agrippa, muove guerra al suo alleato e lo batte.
Tutto l’impero di Roma, il territorio oltre i confini del Rubicone e della Gallia Cisalpina, è nelle sue mani. Ma il Senato rimane. Soprattutto quando ha ormai tutto il potere nelle sue mani, nega di essere un “re”. Non vuole esserlo nominalmente.
I senatori lo chiamano “Padre della patria”, lo appellano come “Augusto”. Non c’è nulla di più nobile di un appellativo simile. Lo accetta, lascia che diventi popolare, ma condivide con il Senato le responsabilità di governo: riforma le province e ne assegna una parte all’amministrazione dell’assemblea e una parte direttamente a sé stesso.
Crea un equilibrio proprio nel momento in cui sembra che l’ordine della vecchia Repubblica sia spezzato per sempre. Mantiene, dunque, almeno formalmente le sembianze di un amorevole figlio di una Roma antica, che non si può chiamare “regno” ma che lo è in tutto e per tutto.
Eppure il Senato rimane, con lui, al centro della vita pubblica. I decreti del “princeps” non sono attuabili se non approvati dall’assemblea e rimangono inappellabili in tutto il territorio imperiale.
Nell’Italia di oggi, duemila anni dopo, a mettere in discussione la centralità del Parlamento è uno dei punti di riferimento di uno dei due partiti che governano il Paese. Si parla di anacronismo di uno strumento novecentesco, di una democrazia realizzabile invece meglio e più velocemente attraverso i “click” dei computer, delle piattaforme dove si sviluppa la digitalizzazione del consenso.
Nessun parlamento è, come ogni strumento, di per sé buona o cattiva cosa: dipende dall’uso che se ne fa, da chi lo incarna, da chi, dunque, vi siede e dal metodo con cui vi siede. Dipende dalla Costituzione dello Stato, dai princìpi su cui questa repubblica o quella monarchia si basano. Le forme sono importanti, ma la sostanza lo è di più.
Per questo, spesso, si legge di apparenti stravaganze quando si afferma, giustamente, che una monarchia può essere più repubblicana di una repubblica stessa e viceversa.
Augusto ce lo ha dimostrato: il suo principato è molto più repubblica del vecchio arnese patrizio ereditato dal logorio delle guerre civili.
La Repubblica Italiana è nata dopo quasi un secolo e mezzo di ipotesi in merito: dal 1849 in poi si è parlato, lottato, discusso sull’unificazione del Paese in una forma che non fosse quella monarchica, pensando alla realizzazione di una democrazia (certamente borghese) di stampo popolare, così come il Partito d’Azione risorgimentale l’aveva ipotizzata. Contro l’idea, invece allora vincente, di una monarchia unificatrice e al contempo rassicurante per nobili e borghesi che paventavano l’avvento di un regime giacobino di nuova ispirazione e su modello marxista.
Nemmeno allora il Parlamento venne messo però in discussione. Neppure quando vi entrarono ex anarchici come Andrea Costa o ex repubblicani come Francesco Crispi. La monarchia costituzionale era ben consapevole che la sola figura del Re o anche soltanto quella dell’esecutivo non bastava a reggere le sorti del Paese.
Allora non c’era la piattaforma Rousseau, non c’era Internet e non c’erano coloro che pensavano di poter fare a meno, dopo averle difese nella lotta referendaria dell’ormai celebre “4 dicembre”, della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
La democrazia ha un costo monetario e ha un costo di tempi: ha i suoi tempi. Volete mettere con un “click” su una tastiera? Basta che il nuovo principe faccia la domanda a suo piacere e si mostri democratico col popolo: così, mettendola in rete e lasciando che la libertà si diffonda, che appaia tale, che sia percepita come quella massima. Scegliere pigiando un tasto. Altro che schede elettorali, cabine, spogli notturni, contestazioni, comizi, controlli delle commissioni, ricorsi, eccetera, eccetera.
Il Parlamento deve essere superato: tutto sarà più semplice. Tutto sarà come non l’avete mai visto. Nemmeno duemila anni fa ai tempi di Augusto.
Buon 25 luglio…

MARCO SFERINI

25 luglio 2018

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli