Quel dolente reportage da una classe fantasma

«Ma come fanno gli operai», di Loris Campetti per Manni editore
Gian Maria Volontè ne "La classe operaia va in paradiso"

«Racconta un metalmeccanico lombardo, cresciuto in quegli anni di cambiamento: “Il guaio è che gli operai sono sempre stati utilizzati a fini politici, ieri mitizzati dalla sinistra fino a pensare che fossero diversi dagli altri cittadini (…) Una volta abbandonati dalla sinistra, che è andata a pescare consensi in diversi aggregati sociali introiettandone i valori, colpiti e impoveriti dalla crisi e dalle ricette liberiste dei governi falsi amici, mi spieghi perché dovrebbero votare per la sinistra, oppure pensare che gli immigrati che lavorano da schiavi negli appalti siano un’opportunità invece che un pericolo? Il fatto è che, una volta finita l’appartenenza ad una classe (…) viene meno l’idea che quella classe possa essere il motore del cambiamento del lavoro, della società, della politica”».

Alzi la mano chi ha letto un’analisi sociologica più puntuale dell’esito delle elezioni. La si trova all’inizio di Ma come fanno gli operai, l’ultimo libro di Loris Campetti (Manni, pp. 160, euro 14) che completa in modo coerente il lavoro cominciato tre anni fa con Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni.
Anche qui siamo dinanzi a un viaggio in un’Italia del nord (ancora) in crisi incontrando lavoratori e lavoratrici che pagano sulla loro pelle e in prima persona la lontananza della politica. Accanto agli operai più propriamente detti – quelli della ex Fiat, quelli pacifisti della Beretta, della Augusta o della Aermacchi – ci sono i ragazzi di Foodora e dei lavoretti, quelli delle ex cooperative rosse dell’Emilia. I primi sono il risultato del precariato spinto all’ennesima potenza e di un’economia che è condivisa solo quando serve a far crollare il costo del lavoro; i secondi sono il prodotto della mutazione genetica della sinistra, dell’idea alta di mutualismo svenduta alla finanza.

Campetti tratteggia con abilità un quadro tanto drammatico quanto illuminante di come l’intero modello produttivo nel giro di pochissimi anni abbia messo ai margini il lavoro e i lavoratori. Un atto di accusa non solo verso la politica – sono tutti dei ladri- perché indirizzato contro buona parte del sindacato altrettanto incapace di rappresentare chi lavora ai margini. La rivoluzione tecnologica già entrata dalle porte di tante aziende – Luxottica, Brembo – ha come prima conseguenza la solitudine del lavoratore diviso fra turni di notte e festivi e troppa stanchezza per parlare di politica alla macchinetta del caffè.

Il cambiamento epocale della fabbrica per Campetti è l’unica possibilità di rinascita per «la classe fantasma» in un’ottica comunque negativa: «può venirci in aiuto un’analisi delle stagioni passate, segnate dall’incapacità delle élite e della politica di prevedere il futuro» avendo come obiettivo la «parola d’ordine ormai ineludibile: lavorare meno, lavorare tutti». La conclusione è, nonostante tutto, ottimista: «Chissà che la realtà non ci sorprenda ancora», corroborata però dalla certezza che la spinta al cambiamento arriverà dalla società e non dalla politica.

MASSIMO FRANCHI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikimedia Commons

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