Quanti parlamentari deve avere una democrazia?

Seguendo l’iter previsto dall’articolo 138 della Costituzione il Parlamento sta lavorando, su precipuo impulso del M5S, alla riduzione del numero dei membri delle due assemblee legislative: la Camera dovrebbe...
La Camera dei Deputati del Regno d'Italia dal 1865 al 1870 a Firenze

Seguendo l’iter previsto dall’articolo 138 della Costituzione il Parlamento sta lavorando, su precipuo impulso del M5S, alla riduzione del numero dei membri delle due assemblee legislative: la Camera dovrebbe scendere da 630 a 400 deputati, il Senato da 315 a 200 senatori, complessivamente 600 parlamentari in luogo di 915.

Scopo dichiarato: ridurre i costi.

Una riduzione che farebbe, appunto, leva su di un minor numero di persone presenti nelle aule anziché sulla riduzione dei loro emolumenti.

Non è semplice, e all’apparenza sicuramente impopolare, sottoporre a critica questo provvedimento.

Pur tuttavia è necessario farlo precisando da subito alcuni dati che ignorati potrebbero far passare per verità dei semplici luoghi comuni.

Prima di tutto con questa riforma l’Italia passerebbe, infatti, a uno degli ultimi posti in Europa sul piano della rappresentanza politica in rapporto alla popolazione.

La riduzione del numero dei parlamentari prevista in questo momento porterebbe, infatti, il rapporto tra il singolo parlamentare e la popolazione di riferimento a 1: 151.000. Nel Regno Unito il rapporto è 1: 101.000; in Olanda 1:114.000; in Francia 1:116.000; Germania 1: 116.000; Spagna 1:133.000.

Sono stati citati Paesi di consolidato assetto democratico con una presenza abbastanza ampia sul piano del pluralismo parlamentare (ormai neppure quello del Regno Unito può essere considerato un sistema bipartitico). Paesi che utilizzano diverse formule elettorali, dalla proporzionale pura dell’Olanda, alla proporzionale con sbarramento al 5% in Germania, ai relativamente piccoli collegi della Spagna dove non si recuperano i resti utilizzando il d’Hondt, al doppio turno francese.

Del resto, seguendo le vicende del sistema politico italiano, al numero dei 630 deputati e 315 senatori non si era arrivati. Dal 1918, infatti, con la crescita della popolazione e l’acquisizione di nuove province (sia dopo la prima, sia dopo la seconda guerra mondiale), il numero dei parlamentari eletti è sempre salito salvo che nell’occasione dei due plebisciti indetti dal regime fascista: in quei due casi (1929 e 1934) il numero dei parlamentari (il Senato era di nomina regia) fu fissato in 400: esattamente il numero previsto dalla riforma caldeggiata dal M5S, come ricorda anche Andrea Fabozzi in suo articolo pubblicato dal “Manifesto”.

In realtà la questione del numero dei parlamentari non dovrebbe riguardare il tema dei costi della politica, come invece agitato dalle mode propagandistiche di questi tempi.

Vale la pena ricordare alcune banalità: il numero dei parlamentari dovrebbe, infatti, essere legato a due questioni assolutamente decisive per il funzionamento di una democrazia complessa come dovrebbe essere quella italiana. Al riguardo della quale, è bene ricordarlo, sono in essere tendenze fortemente semplificatorie al punto da far pensare una situazione già collocata pericolosamente“oltre” quelle tensioni presidenzialiste che pure erano affiorate nel recente passato con l’inasprirsi del peso della personalizzazione della politica, fenomeno veicolato da un uso esasperato della comunicazione mediatica in maniera del tutto distorcente il messaggio generale del dibattito pubblico.

Occorre allora chiarire che affrontare il tema del numero dei parlamentari non dovrebbe essere possibile in assenza di una valutazione complessiva circa il rapporto di popolazione esistente all’interno del collegio e/o circoscrizione; del metodo di elezione (lista bloccata “corta”, uninominale, lista lunga con preferenze, esprimibili in vario modo) e la realtà del sistema politico dal punto di vista della sua capacità di rappresentanza delle diverse “sensibilità politiche” (usando un termine togliattiano) presenti in una dimensione consistente nel territorio nazionale, garantendo anche la presenza delle minoranze linguistiche ed etniche.

La questione deve essere intesa come afferente il sistema elettorale nel suo complesso e non soltanto vista sotto l’aspetto della formula di traduzione dei voti in seggi.

In questo senso appare dunque fondamentale il disegno dei collegi: un punto sul quale, in passato, si erano già sviluppate criticità che portarono a rappresentare elementi dirimenti per il giudizio negativo espresso dalla Corte Costituzionale al riguardo dei ben due leggi elettorali, entrambe bocciate dalla stessa Alta Corte.

Ricordando, infine, come la Costituzione preveda un sistema politico fondato sulla “centralità” del Parlamento, cui il governo è obbligato da un voto di fiducia espresso da entrambi i rami (come confermato dall’esito del referendum del 2016) mentre tocca al Presidente della Repubblica incaricare il Presidente del Consiglio e a controfirmare la lista dei ministri.

Una composizione delle Camere insufficiente dal punto di vista dei riferimenti sia sotto l’aspetto espressione geografica, sia di presenza politica, magari con l’adozione di una formula elettorale maggioritaria che finirebbe con lo schiacciare ancor di più nel senso di una forzatura governativista il lavoro dell’aula (senza dimenticare che esiste anche un problema di regolamenti d’aula e di soglie di garanzia per la presenza delle minoranze) finirebbe con l’inficiare la stessa validità costituzionale di un provvedimento di riduzione numerica sviluppate in maniera meramente semplificatoria.

La questione quindi non è quella dei costi ma di ordinamento delle massime istituzioni rappresentative dello Stato nell’ambito del dettato della Costituzione Repubblicana: e sarà questo il punto da analizzare con il massimo dell’attenzione nello svilupparsi dell’iter parlamentare del provvedimento di riduzione e, nell’eventualità, di una richiesta di referendum al momento dell’approvazione definitiva.

FRANCO ASTENGO

10 luglio 2019

foto tratta da Wikipedia

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