Profitti stellari e slalom fiscali, la grande evasione dei giganti del Web

Capitalismo delle piattaforme. Secondo Mediobanca dal 2014 elusi 74 miliardi grazie a imposte agevolate e fuga nei paradisi fiscali. In Italia il fatturato è 2,4 miliardi a fronte di 64 milioni di euro versati

Grazie all’Irlanda, al Lussemburgo, allo Stato americano del Delaware e alle Cayman, le principali venticinque società del capitalismo delle piattaforme digitali hanno risparmiato 74 miliardi di euro in tasse tra il 2014 e il 2018. Con 25 miliardi di euro Apple è considerata la regina dello slalom tra paradisi fiscali e giurisdizioni nazionali lasche o del tutto impreparate ad affrontare la potenza di chi macina profitti, fa fruttare una montagna di liquidità a Wall Street o a Hong Kong dove, pochi giorni fa, il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba ha raccolto 11 miliardi di dollari, dopo i 25 raccolti a Wall Street.

Nella speciale classifica stilata ieri dall’area studi di Mediobanca in un «focus sulle WebSoft companies» seguono Microsoft (16,5 miliardi), Google (11,6 miliardi) e Facebook (6,3 miliardi). Con l’eccezione di Microsoft, le quattordici società statunitensi analizzate hanno scelto il Delaware come sede fiscale, mentre sette di nazionalità cinese si sono dirette verso le Cayman. Nei cinque anni esaminati circa la metà dei profitti prima delle imposte è stato tassato in paesi a fiscalità agevolata, o in «paradisi fiscali». L’aliquota fiscale media è del 14,1%, al di sotto di quella nominale del 22,5%. Ciò avrebbe portato a un «risparmio» cumulato di oltre 49 miliardi. Questi capitali hanno formato, insieme ad altri, un mare di liquidità: 507 miliardi di euro. Servono a realizzare importanti acquisizioni, a creare monopoli, diversificare attività specializzate, competere sul ribasso dei prezzi con le società concorrenti.

La replica della filiale italiana dell’azienda guidata da Jeff Bezos ha contestato l’equiparazione effettuata dal rapporto di Mediobanca tra aziende diverse: «L’imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi sia perché il retail è un business con margini ridotti sia per i continui, forti investimenti di Amazon in Italia che, dal 2010, ammontano a oltre 1,6 miliardi di euro – si legge in una nota – La nostra aliquota fiscale effettiva dal 2010 al 2018 è stata mediamente del 24% e la nostra attività di international retail è in perdita». Il rapporto avrebbe inoltre preso in considerazione l’impatto di sette delle undici società con cui Amazon opera in Italia che hanno ricadute in termini di gettito locale e livello nazionale. «Le tasse pagate in Italia sono più alte rispetto a quelle dichiarate nel rapporto. Da maggio 2015 la succursale italiana di Amazon EU Sarl «paga le imposte in Italia per le vendite al dettaglio, non in Lussemburgo».

Le filiali italiane delle piattaforme digitali, presenti con le loro controllate in maggioranza a Milano e in Brianza, hanno versato al fisco 64 milioni nel 2018 e pagato sanzioni per 39 milioni (erano 73 nel 2017). Il loro fatturato è di oltre 2,4 miliardi di euro. Queste aziende occupano 9.800 persone. Amazon, da sola, ne impiega 6.500 a cui si aggiungeranno altri mille a tempo indeterminato. Complessivamente, dal 2017 i dipendenti sono cresciuti di 1.770 persone. Nel quinquennio, in tutto il mondo, i dipendenti diretti e formalizzati di queste aziende sono quasi raddoppiati (+91,6%): due milioni.

Queste statistiche non contemplano, probabilmente, i cosiddetti «micro-lavoratori», coloro che lavorano a richiesta (on demand), a cottimo e in subappalto e allenano i sistemi automatici basati sugli algoritmi. Si tratta di milioni di cottimisti digitali che realizzano prestazioni individuali su una piattaforma digitale di lavoro. E non considerano nemmeno il lavoro degli utenti-prosumers (o producers) su piattaforme come Facebook o Google, essenziali per vendere la pubblicità alle «terze parti», le aziende-clienti di queste piattaforme-mercati (marketplace). L’insieme di questi elementi rivelano la mobilitazione continua di una forza lavoro resa straordinariamente produttiva in tutto il mondo. Questo è il cuore della ricchezza incredibile accumulata.

Prese singolarmente Microsoft, Amazon e Alphabet – la società madre di Google – valgono più della borsa italiana. Le 25 società censite concentravano alla fine del 2018 il 21,6% della capitalizzazione di tutte le multinazionali mondiali e valevano otto volte la Borsa italiana, oltre il doppio di quella tedesca. Tra il 2014 e il 2018 sono cresciute del 19,8% contro il 3,3% delle multinazionali manifatturiere. Questo ha portato a una capitalizzazione totale di 5.067 miliardi a metà novembre 2019. Una cifra superiore al prodotto interno lordo di molti stati, anche europei. I ricavi sono così distribuiti tra i primi tre giganti del settore: Amazon è la prima con un fatturato da 203,4 miliardi di dollari, Alphabet 119,5 miliardi, Microsoft 96,4. La crescita media annua parla cinese: NetEase è aumentata del 54,8 in quattro anni, Alibaba del 49,1%, segue Facebook con il 45,5%. Il boom della borsa è alimentato dai profitti saliti a 850 miliardi di euro nel 2018 (+110% sul 2014), sei volte superiori a quelli dell’industria manifatturiera: 110 miliardi, con un saldo di 413 miliardi.

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha quantificato in 500 milioni l’importo, minimo, di una «Web Tax». La Commissione Ue Von Der Leyen ha annunciato un intervento sul fisco digitale e sulla concorrenza sleale tra Stati europei. Punta sulla linea dura della vicepresidente danese Margrete Vestager. I criteri per una misura condivisa tra gli Stati potrebbero emergere dagli studi che sta conducendo in questi mesi l’Ocse.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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Economia e societàFinanza e capitali

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