Praga ’68 e le contraddizioni della sinistra italiana

Mi auguro sia permesso avviare questo intervento con un ricordo personale. Ero a casa, in ferie forzate perché l’ufficio stava chiuso una settimana (chi mi ha conosciuto sa quanto...

Mi auguro sia permesso avviare questo intervento con un ricordo personale. Ero a casa, in ferie forzate perché l’ufficio stava chiuso una settimana (chi mi ha conosciuto sa quanto non mi siano mai piaciute le ferie).

Le 5,30 del mattino: mio padre si stava preparando per il turno in fabbrica e ascoltava, come sempre, la radio.

Ad un certo punto irruppe nella stanza che dividevo con mio fratello ed esclamò (tutto il dialogo rigorosamente in dialetto, naturalmente) “ I russi hanno invaso Praga”.

Mi alzai seguendolo ad ascoltare il notiziario: camminavo nervosamente su e giù per la cucina e ad un certo punto, mentre stava per uscire di casa, lo appellai perentorio. “ Papà, questa volta rompiamo con Mosca”. Poco profetico e molto ottimista.

21 Agosto 1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando l’esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal Partito Comunista di Dubcek.

1968: l’anno dei portenti, l’anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino: quell’anno magico vive in quel momento la svolta verso il dramma.

Si chiude bruscamente un capitolo importante nella storia del ‘900.

Come mi accade ogni anno, e a rischio di apparire assolutamente ripetitivo, mi permetto di disturbare un certo numero d’interlocutrici e interlocutori per ricordare i fatti di Praga.

Una riflessione sui risvolti che quell’avvenimento ebbe sulla sinistra italiana: si compirono, in quel frangente, scelte che poi avrebbero informato la realtà politica della sinistra italiana per un lungo periodo.

Prima di tutto l’invasione di Praga spezzò lo PSIUP: a distanza di tanti anni possiamo ben dire che si trattò di un fatto politico importante.

Il partito, rappresentativo dell’esperienza della sinistra socialista che aveva rifiutato nel 1963 l’esperienza di governo con la DC, aveva appena ottenuto (il 19 Maggio) un notevole risultato alle elezioni politiche (il 4,4% dei voti con 24 deputati) e su di esso si era appuntata l’attenzione di molti giovani che avevano cominciato a ritenerlo l’espressione di un avanzato rinnovamento a sinistra.

Lo PSIUP si spaccò in due, da un lato il vecchio gruppo dei “carristi” approvò incondizionatamente l’invasione con toni da antico Comintern (come nessun altro settore della sinistra italiana, usando un’enfasi non adoperata neppure dalla corrente del PCI vicina a Secchia); dall’altra esponenti di spicco del “socialismo libertario”, epigoni della lezione di Rosa Luxemburg, come Lelio Basso si misero da parte; ma soprattutto furono i giovani, al momento protagonisti del ’68, a ritrarsi. Lo PSIUP iniziava così la china discendente, che sarebbe culminata nell’esclusione dal Parlamento con le elezioni del 1972: un evento ripetiamo di un peso rilevante sulle future sorti della sinistra, in particolare al riguardo delle possibilità di aggregazione, iniziativa politica, capacità di rappresentanza di quella che sarebbe stata la “nuova sinistra” di origine sessantottesca.

Il peso più importante, però, della drammatica vicenda praghese ricadde, ovviamente, sul PCI.

Il più grande partito comunista d’Occidente si trovava, in quel momento, in una fase di forte espansione elettorale (il 19 Maggio aveva raccolto 1.000.000 di voti in più rispetto all’Aprile 1963) ma in difficoltà organizzativa, in calo d’iscritti, non avendo ancora superato il trauma dell’aver svolto un congresso inusitatamente combattuto come l’XI del 1966, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti, e contrassegnato dallo scontro (ovattato, ovviamente, com’era costume dell’epoca, ma vissuto intensamente in una larga fascia di quadri) tra le ragioni di Amendola e quelle di Ingrao.

Inoltre il quadro europeo appariva alquanto problematico: il PCF appariva scosso dall’impeto del Maggio e si rinchiuse in una rigida ortodossia, PCE e PCP erano piccoli partiti ancora clandestini, la Lega dei Comunisti Jugoslavi obbedì, ovviamente, alla ragion di stato.

La notizia dell’invasione piombò su di una deserta Roma agostana: i principali dirigenti del PCI erano in ferie, tutti al di là della cortina di ferro. Unico componente della segretaria presente in sede era Alessandro Natta che, in tutta fretta e con i mezzi dell’epoca, contattò gli altri compagni, per varare un documento, la cui prima stesura fu affidata a Giorgio Napolitano, che suonò immediatamente come un punto molto avanzato di condanna dell’invasione.

Tralasciamo, per brevità, la narrazione del fortissimo dibattito che si scatenò subito, alla base del partito, nelle sezioni, nei comitati federali di tutte le province: un dibattito dove si registrarono anche elementi di netta contrapposizione e di insofferenza, da parte dei settori più arretrati del partito, verso quelle che sembravano le scelte del vertice.

Inoltre il PCI era chiamato a difendere le posizioni di apertura tenute verso il nuovo corso cecoslovacco: qualche mese prima si era svolto, infatti, un incontro tra Longo e Dubcek.

I problemi maggiori, come era prevedibili, vennero dall’esterno e, più precisamente, dall’URSS: la pressione del PCUS per un arretramento nelle posizioni dei comunisti italiani e, semplificando al massimo, un vigore di dibattito che ripetiamo risultò altissimo e del tutto inedito per la vita del partito, si arrivò, dopo un incontro Cossutta- Suslov avvenuto a Mosca a una sorta di rientro nell’alveo.

Di quale alveo si trattava?

Il PCI, nella sostanza, si assestò all’interno dei confini della linea tracciata da Togliatti, dopo il XX Congresso del PCUS e l’invasione dell’Ungheria del 1956.

Il PCI, alla fine di quell’aspro confronto interno, parve rinunciare addirittura a sviluppare la capacità che lo stesso Togliatti aveva avuto nel definire un’autonomia tale da metter in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornendo la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” e difendendo, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

Non fu sviluppato, in quel momento, dal gruppo dirigente del PCI il filo rosso che legava l’intervista a “Nuovi Argomenti” del 1956 al Memoriale di Jalta, che pure Longo aveva avuto il coraggio di pubblicare.

Alla base della linea assunta, alla fine, dal PCI c’era ancora la convinzione secondo cui il modello sovietico, essendo collegato alle condizioni di arretratezza e di accerchiamento in cui si era sviluppata la rivoluzione russa, era destinato a evolvere verso la democratizzazione nella misura in cui si fosse compiuto il processo di industrializzazione, urbanizzazione e alfabetizzazione e nella misura in cui fosse avanzato il processo di distensione internazionale.

Ancora più a fondo, c’era la convinzione che l’autoritarismo politico e la centralizzazione amministrativa, nei paesi dell’Est, fossero fenomeni prevalentemente istituzionali, rappresentassero un ritardo e un’incongruenza della sovrastruttura rispetto alla struttura.

Il gruppo dirigente sovietico rimase così l’interlocutore come protagonista necessario di una riforma graduale.

Tale posizione fu mantenuta fin ben dentro alla segreteria Gorbaciov.

Torniamo a Praga’68:nessun altro soggetto, anche del dissenso comunista, seppe rispondere adeguatamente su questo terreno: né trotzkisti, né maoisti, né terzomondisti.

Soltanto in alcuni settori della socialdemocrazia di sinistra (cui si accostarono, in seguito, esuli della primavera praghese riparati in Occidente) si registrarono fermenti rivolti nel senso di una ricerca più avanzati, ma il Partito Socialista di allora era troppo impegnato nella “politique d’abord” e nel definire l’area di governo per riprendere quei temi e farne oggetto di una vera riflessione rivolta verso sinistra .

Anche quei fermenti della sinistra risultarono assolutamente marginalizzati così come già in passato non avevano trovato spazio le riflessioni di Panzieri e dei “Quaderni Rossi”.

Al PCI non arrivò, in quel punto, da parte del Partito Socialista (in quel momento ancora unificato) nessuna offerta di effettivo respiro al riguardo dell’avvio di sedi di riflessione comune.

Probabilmente, anzi sicuramente, i tempi del dibattito politico non erano assolutamente maturi (in realtà non lo erano neppure dieci anni dopo, nel 1978, quando come Manifesto –PdUP organizzammo a Venezia il primo convegno sul dissenso all’Est sotto il titolo “Potere e opposizione nelle società post- rivoluzionarie), tenuto conto anche che nel Partito Socialista stava maturando la crisi dell’unificazione socialdemocratica a seguito del negativo risultato elettorale del Maggio di quell’anno.

Nel PCI si registrò, invece, un confronto inedito che diede origine a un aspetto particolare di quello che, poi, per molti anni fu denominato “caso italiano”.

Un gruppo di intellettuali che, nel corso dell’XI congresso avevano sostenuto le posizioni di Ingrao, aveva via, via, elaborato posizioni autonome in contrasto netto con la direzione del Partito, dando anche vita a una rivista teorica ”Il Manifesto”, promotrice di un ampio dibattito e seguita con molto interesse anche da settori esterni al PCI.

Tralascio, ovviamente, anche la narrazione di questa vicenda perché si tratta di un’altra storia, del resto ben conosciuta, per limitarmi alle posizioni che si espressero sulla vicenda cecoslovacca in contrasto con quelle ufficiali.

Le posizioni del “Manifesto” partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia come continua espansione dell’iniziativa dei più non bastava.

Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell’autoritarismo.

Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli creavano non pochi problemi.

Anche i futuri protagonisti della vicenda del “Manifesto” impostarono però il confronto in termini politicisti (scivolando tra l’altro su duna certa “considerazione” al riguardo della rivoluzione culturale cinese), non riuscendo ad allargare il fronte e far diventare le loro ragioni organicamente parte di un dibattito non ricollocabile immediatamente, come fece la maggioranza del PCI, in una logica da “frazione esterna”.

Non risultò così neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi fin dal momento della scomparsa di Togliatti e che ebbe nella vicenda cecoslovacca il suo acme (fino alla pubblicazione dell’articolo “Praga è sola” sulla base del quale scattò il meccanismo concreto dell’esclusione dal partito) ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che non riuscì però ad aprire il varco necessario nella logica complessiva di un dibattito di massa.

Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l’egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.

Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema.

Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa.

Queste posizioni, sommariamente ricordate in questa sede, risultarono sconfitte.

Non è ovviamente nostra intenzione ricostruire la storia con i se e con i ma: il nostro giudizio è quello che la scelta maggioritaria assunta dal PCI in quel cruciale tornante della storia causò il formarsi di alcune contraddizioni di fondo che, ancor oggi, risultano operanti, come si diceva all’inizio.

Proprio il mancato superamento di quelle posizioni ancora interne alla logica del XX Congresso e presenti in dimensione rilevante nel PCI al momento della caduta del muro di Berlino, nel 1989 e nonostante alcuni seri tentativi compiuti nella metà degli anni’70 dalla segreteria di Enrico Berlinguer (segretaria accantonata, nei suoi contenuti di fondo, dai “nuovisti” non tanto per i tanti e gravi errori politici commessi nel corso della sua gestione, ma per l’accusa di “moralismo”), consentirono agli “ultras estremisti” (ricordate ci sono anche gli estremisti di un presunto moderatismo; scambiato con la subalternità e la sudditanza psicologica nei confronti delle posizioni dell’avversario da unire alla bramosia di essere “ricevuti a palazzo”) del PDS e poi del PD di cacciare via l’intera tradizione ideale, storica, politica dell’area comunista italiana e di trasformarsi in una semplicemente componente del “cartel party” che agita, inutilmente, il teatrino televisivo e salottiero della politica italiana.

Aver mancato una vera e battaglia politica su Praga’68 causò, quindi, nel PCI una crisi (apparentemente soffocata dai grandi successi elettorali del partito negli anni’70) che esplose vent’anni dopo e agisce, ancor oggi, nella totale deriva che la sinistra italiana sta subendo sulla strada della sua estinzione quasi compiuta e rappresenta, purtroppo, un elemento di freno nella possibilità di riaprire una discussione seria su una prospettiva di sinistra capace di raccogliere il meglio dei suoi diversi filoni d’origine.

Praga rappresentò, insomma, uno snodo fondamentale nelle vicende della sinistra italiana ed europea.

Il PCF, ad esempio, agì in maniera ben più storicamente arretrata dello stesso PCI, l’SPD rifiutò l’ospitalità a Pelikan, poi concessa dai socialisti italiani, con queste motivazioni   racchiuse in un’affermazione di Willy Brandt (che aveva già in mente l’Ostpolitik) “ Noi non dobbiamo sostenere gli oppositori ai Partiti comunisti dell’Est. Non dobbiamo puntare su chi si contrappone frontalmente al comunismo. Al contrario, dobbiamo favorire una evoluzione positiva dei partiti comunisti, dialogando con loro e sostenendo al loro interno le correnti più moderate”.

E’ possibile, in conclusione, che di fronte alla “Primavera di Praga” e alla sua feroce repressione le parti maggioritarie dei grandi partiti della sinistra europea occidentale compirono il primo passo di quell’accettazione del concetto di “fine della storia” su cui si sarebbero poi adagiate vent’anni dopo alla caduta del regime sovietico e del muro di Berlino.

FRANCO ASTENGO

20 agosto 2017

foto tratta da Pixabay

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