Piccola storia ignobile di una Italia incosciente e piena di pregiudizi

Chi è l’argine contro la santa alleanza moderna tra revisionismo storico e attualità del neofascismo e del razzismo di nuovo modello? Per rispondere a questa domanda credo sia utile...

Chi è l’argine contro la santa alleanza moderna tra revisionismo storico e attualità del neofascismo e del razzismo di nuovo modello?
Per rispondere a questa domanda credo sia utile farsi una domanda ulteriore, ossia chiedersi che cosa (prima ancora di “chi”) può essere un fronte di contenimento di un amplificato senso che si vorrebbe spacciare per “comune” riferito alla percezione del diverso da noi come una minaccia al presunto benessere italico e, più in generale, alla gens italica.
La risposta possibile è questa: soltanto una simbiosi ritrovata tra rinnovamento culturale e sociale del Paese può avere la funzione di ricostituzionalizzare una larga parte di popolo italiano che pensa di essere minacciato dai migranti piuttosto che dalle politiche liberiste; che pensa di essere invaso dai disperati che emigrano piuttosto che dagli effetti speculativi della crisi finanziaria continentale e globale.
Insomma, la propaganda dell’odio ha esercitato la sua egemonia anti-culturale sfruttando la falla apertasi a sinistra: in una ex sinistra diventata centro politico e quasi destra economica che ha abbracciato il dogma neoliberista e ha imposto con i suoi governi, proprio ai più deboli della società, politiche lacrime e sangue in nome della conservazione di uno status quo delle rendite padronali.
Così l’unico argine al fluire dell’odio generato dal pregiudizio, a sua volta generato dall’ignoranza tanto della storia quanto delle cause dei fenomeni sociali del presente, è rimasta una parte di sinistra ostinatamente legata ad una valorizzazione dell’uguaglianza sociale e civile, all’Internazionale futura umanità, alla considerazione delle frontiere come meri tracciati di matita e di penna su carte geopolitiche per delimitare i poteri, le economie nazionali, i popoli stessi da contrapporre gli uni agli altri in un pericoloso evolversi antisociale che produce, come si può ben vedere in tutta Europa, soltanto rigurgiti di nazionalismo becero.
La cultura, dunque, è il primo argine alla larga parte di disinformazione crescente che viene spacciata come verità universalmente accettata, quella “detta dalla televisione”. E, si sa, “se lo dice la tv” allora bisogna per forza crederci!
Ma la cultura genericamente intesa è concetto troppo vago: servirebbe una scuola che potesse ritrovare una propria autonomia nell’insegnamento della scienza storica, dei fatti legandoli alla morale costituzionale, alla ragione d’essere della nostra Repubblica democratica, di una Italia la cui recente storia, nemmeno ancora bicentenaria, puo essere divisa in due grandi blocchi storici: la formazione dello Stato unitario con le vicende risorgimentali sotto i Savoia e, dopo il ventennio fascista, la nascita della seconda fase dell’Italia, quella repubblicana.
La prima parte di questa storia, dal 1861 al 1943, è costruzione di una italianità che preesisteva alla fondazione del Regno ma che era vissuta regionalmente, senza continuità e, quindi, la vera indipendenza del Paese non sta tanto nella formazione dello regime unitario quanto nella non presenza dei cosiddetti “stranieri” entro il confine naturale del’arco alpino e lungo tutto lo Stivale.
Dopo secoli di dominazioni spagnole, francesi e austriache, nel 1919, terminato il sanguinoso conflitto mondiale, l’Italia diventa territorio gestito e governato solo da italiani. Di cultura comune si parla e si inizia a parlare nelle scuole abituando gli studenti a pensare d’essere uguali tra italiani diversi: del Nord e del Sud. Dalla piccola vedetta lombarda all’infermiere di Tatà, da Marco che va nelle Ande al tamburino sardo.
E’ l’Italia scolastica del “Cuore” che surclasserà sempre il ben più educativo “Storia di un burattino” di Carlo Collodi: Pinocchio verrà letto extrascolasticamente, come favola moderna, mentre De Amicis avrà un posto pedagogico nella formazione dei giovani italiani che, incoscienti del futuro che li attende, si avviano a diventare “figli della lupa”, “balilla” e “camicie nere”…
Troppo poco tempo tra la fine della Prima guerra mondiale e l’inizio del regime fascista per creare una coscienza sociale e nazionale che lo stesso Gramsci ritiene necessaria per fare in modo che sia il proletariato a prendere in mano le sorti del Paese.
Troppo poco tempo per passare dal vecchio medioevo sabaudo al liberalismo vero e proprio: le avventure coloniali fanno assaporare alla popolazione il sentimento della rivincita per la “vittoria mutilata” e così il regime fascista può ritornare in Africa e proclamare l’Impero italiano, ponendone la corona sulla testa di Vittorio Emanuele III.
Venti anni di esaltazione della forza, delle radici romane antiche, dell’Impero di Augusto (povero Augusto… sic!), della necessità dell’espansionismo nel nuovo “Mare nostrum“: una seconda guerra planetaria, leggi razziali, stermini e atrocità che, dopo la nascita della Repubblica, si tenta di riscrivere, creando fatti inventati, privi di qualunque attinenza con la realtà.
Si adombrano verità alternative, si mette in dubbio tutto un sistema politico screditato dalla Tangentopoli di inizio anni ’90 e così, perduto il Pentapartito ogni carattere di istituzionalità, avendo abusato del suo ruolo pubblico per fini privati, la politica ha cominciato ad essere percepita come un luogo di affarismo oltre ogni limite consentito e tollerabile, persino da chi l’ha sempre concepita come qualcosa di impossibile da ridurre ad una giacobina dedizione al benessere sociale, alla vera res publica.
L’egualitarismo comunista, la difesa del ruolo del lavoro nella lotta di classe tra padroni e operai, l’antifascismo come pietra angolare di ispirazione di una alternativa anche sociale diventano opinabili perché è facile per le destre berlusconiane assicurarsi il sostegno della borghesia imprenditoriale attraverso la lotta dualistica con un fronte progressista che metterebbe in forse una stabilità dei profitti provando a concedere qualcosa anche ai salariati.
Non si può fare, soprattutto se esiste ancora una forza che si chiama Rifondazione Comunista e che chiede l’indicizzazione dei salari, le 35 ore di lavoro a parità di salario, la decurtazione della defiscalizzazione per le imprese, meno spese militari e una politica di risanamento dell’ambiente.
Così, la destra, con qualche soluzione di continuità, governa per altri venti anni: continua a governare anche quando non è più a Palazzo Chigi. Lo fa con i “tecnici” che sostengono l’intromissione economica della BCE addirittura nella Costituzione repubblicana: il pareggio di bilancio come norma della Carta è revisionismo rispetto ai valori sociali che dal 1948 in poi avrebbero dovuto essere alla base dello sviluppo della nuova Italia.
E così, nella crescente disperazione sociale alimentata dallo sfruttamento sempre più intensivo di una forza lavoro ridotta a neoschiavismo da contratti privi di qualunque attinenza col vecchio Statuto dei lavoratori e con i diritti più elementari per garantire una vita dignitosa, avanza la propaganda razzista, la paura verso ogni differenza che porti con sé la minaccia di sottrarci la speranza del futuro, il lavoro fondamentalmente.
Nella crescente disperazione sociale alimentata dalle circostanze storiche delle migrazioni, propagandate come fenomeno arginabile con dogane, frontiere, navi da guerra e respingimenti forzosi, il povero diventa nemico del povero. Ma mentre il primo povero ammette, nell’evidenza dei fatti, d’essere tale, il povero italiano non lo ammette: la dignità prima di tutto. E quindi non accetta di essere retrocesso dall’etichetta popolare di “ceto medio” a quella di “nuovo povero”.
E quindi torniamo al presente attuale, infelice prodotto di questo recente passato.
Cosa può arginare un’evoluzione tanto numerica quanto cultural-sociale di antivalori neofascisti e di una propensione a quel “sovranismo” che fa prendere la pistola in mano ad un giovane ventottenne e sparare a persone ignare solo per il fatto di essere “nere”?
Se tutto ciò deriva da una retrocessione cultura e (anti)sociale del Paese, ne consegue che l’argine consiste nel recupero della cultura e della socialità.
Ripartiamo dall’uguaglianza sociale per conquistare tutte le altre uguaglianze, perché le destre fasciste, clericali e conservatrici di ogni tipo sono lì a soffiare sul fuoco, ad alimentare un disagio sociale esageratamente spinto ai limiti del disumano e del disprezzo del simile verso il suo simile.
Ripartiamo da una proposta politica che archivi ogni esperimento, sia di centrosinistra sia di centrodestra, che in questi decenni ha lentamente e progressivamente archiviato la stagione delle lotte e della solidarietà reciproca per far emergere i valori del mercato e della spietata concorrenza. Non solo economica ma anche morale, togliendo dall’indicibile il pregiudizio, il razzismo, la fobia del diverso.
Siamo di nuovo qui: alla lotta tra reazione e progressismo. E il progressismo oggi non è certo rappresentato da chi vuole rifare il centrosinistra o governare con gli iperliberisti provando a sembrare di sinistra.
Il progressimo deve nutrirsi di egualitarismo, di Costituzione. Senza alcun pareggio di bilancio. Ecco cosa fa la differenza tra il moderno comunismo libertario e il moderno liberismo che si illude di poter controllare i neofascismi così come prova a controllare i protezionismi profittuali.
Si ricomincia anche da Macerata: ma più razzismo, mai più fascismo.

MARCO SFERINI

10 febbraio 2018

foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al Popolo!

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