Per un'”etica della collaborazione” nella politica di oggi e domani

“Etica della collaborazione”. Un titolo del Corriere della Sera del 2 febbraio riprende, forse soltanto occasionalmente, il tema del rapporto tra etica e politica. Ci troviamo, infatti, in una...

“Etica della collaborazione”. Un titolo del Corriere della Sera del 2 febbraio riprende, forse soltanto occasionalmente, il tema del rapporto tra etica e politica.

Ci troviamo, infatti, in una fase in cui si registra una sorta di oblio nell’intreccio tra etica dei principi , etica della responsabilità, agire politico.

Nel tentativo che si sta cercando di portare avanti di ricostruzione della sinistra il ritorno ad una idea di etica nei comportamenti politici dovrebbe costituire un punto centrale di riflessione.

In questo senso appare prioritario confrontarsi al riguardo dell’emergere della “contraddizione post-moderna” intesa con l’esaurimento dei margini del dominio del genere umano sulla natura da considerarsi quale emergenza tale da sostituire la centralità di quella che è stata definita “contraddizione principale” riguardante lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Mai come in questo caso, nella relazione che rimane ancora da stabilire tra dominio del genere umano sulla natura e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ci si propone il dilemma del come coniugare osservanza del principio ed esercizio della responsabilità.

Pensiero a azione, appunto.

Fino ad oggi, infatti, la risoluzione della prima contraddizione sul dominio della natura da parte del genere umano (dando per scontato il superamento del “classico” schema elaborato da Stein Rokkan di cui deve essere reclamato l’aggiornamento) stava dentro alla risoluzione della seconda sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Una risoluzione che doveva avvenire per via storica attraverso il superamento del capitalismo e la trasformazione del modo e delle finalità del produrre.

Insomma: l’ape e l’architetto.

Il punto sul quale si intravedevano le distorsioni impedienti questo tipo di soluzione era del tutto assegnato alla politica fattasi potere e ancora da potere a dominio nella sua forma più evidente: lo Stato.

L’analisi riguardava le varie forme di dominio fattesi Stato attraverso l’azione politica.

Con grande vigore, giudicandone impossibile una qualche riedizione, abbiamo criticato l’inveramento statuale realizzatosi attraverso alcuni fraintendimenti novecenteschi dell’etica marxiana: per intenderci al meglio quello che è stato definito come “socialismo reale”.

Una critica molto più netta quella verso il “socialismo reale” (è il caso di sottolinearlo) di quella che ha squilibrato, nell’occasione del crollo del sistema raccolto attorno all’Unione Sovietica, quella rivolta verso i cosiddetti regimi liberal-democratici, con le loro deviazioni colonialiste, razziste, totalitarie.

Ai protagonisti di quei “fraintendimenti dell’etica marxiana” che avevano dato origine agli inveramenti statuali del ‘900 il rimprovero più severo che, probabilmente, è stato loro rivolto è stato quello del “tradimento dell’Utopia”.

Dimenticando che U-topos significa “luogo che non c’è”. Se non c’è, però è soltanto perché non lo si è trovato e, dunque, bisognerebbe continuare a cercarlo, senza far sfoggio di ottimismo ma anche al di fuori dal ripiegamento da un pessimismo passivo.

In esito a questa discussione, preso atto delle grandi difficoltà di espressione delle grandi ideologie che hanno caratterizzato ‘800 e ‘900, forse è il caso di riflettere su alcune categorie probabilmente fin qui non analizzate a sufficienza.

E’ il caso infatti di esaminare la materialità del crollo di molte parti dell’ “involucro politico” dentro al quale abbiamo vissuto le nostre esistenze di militanti.

“L’agire politico”, ben oltre le regole dettate dalla politologia ufficiale, si è infatti trasformato in un confronto ristretto tra l’etica e l’estetica. Da un lato oggi, almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato, appare, infatti, egemone il rapporto tra l’estetica e la politica.

Un’egemonia che trova le sue fondamenta anche in relazione allo sviluppo di una certa innovazione tecnologica destinata a stravolgere l’utilizzo dei mezzi di comunicazione.

L’estetica intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione pubblica. Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali portati alla mostra della scena pubblica.   La prospettiva è quella della teatralità della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici. Si è così valorizzato l’agire comunicativo in luogo di quello strategico.

Una “forma del politico” armoniosa e composta nella cornice da un conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un processo di una gigantesca  “rivoluzione passiva” (altri più pratici scriverebbero: le pecore al pascolo).

Un’estetica il cui obiettivo è quello dell’anestetizzazione del “dolore sociale”, oggi composto da entrambi gli elementi cui si accennava all’inizio: quello del limite che incontra il dominio umano sulla natura e quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, comprensivo anche dell’ulteriore livello dello sfruttamento di genere (sfruttamento di genere la cui risoluzione avevamo, erroneamente, affidato all’obiettivo del superamento del capitalismo).

Il confronto, però, a questo punto non può davvero che avvenire tra l’estetica e l’etica: l’etica intesa come il termine che designa le regole della condotta umana relativamente alla sfera del dovere, di ciò che è giusto/lecito fare, contrapposto a ciò che è ingiusto e/o illecito.

E’ soltanto attraverso il filtro dell’etica che può essere consentito di guardare alla politica attraverso un costante confronto critico.

La nostra tradizione ci dice, però, che i rapporti tra etica e politica non possono essere soltanto necessariamente conflittuali, perché l’etica può ricevere una incarnazione teorica  nello Stato (Hegel) o nella classe oggettivamente rivoluzionaria (Marx): nelle forme, cioè, che apparivano mature del divenire storico.

Come abbiamo visto l’esito del ‘900 ha dimostrato che tra Stato e Classe il nodo teorico non è stato risolto.

Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del “governo” (proprio attraverso quell’etica della collaborazione come dal titolo del Corriere della Sera), poiché proprio l’esito del ‘900 ha posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri).

La domanda finale, riguarderebbe il chi espande e tutela i diritti della natura, già così fortemente compromessi dall’antropizzazione esasperata? Come questi diritti della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali, con quelli della tensione  all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano? Come può la politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”?

Le risposte non possono star dentro al vecchio recinto della ricerca sulla priorità delle contraddizioni ma nella ripresa del confronto tra etica ed estetica.

Ricostruire, perché è il caso di ricostruire, l’idea dell’etica pubblica intesa come idea portante dell’esistenza di criteri morali cui dovrebbe ispirarsi l’azione pubblica, l’agire politico,quella “democrazia pubblica” che riguarda la conduzione della vita dei cittadini.

Beninteso una “democrazia pubblica” ispirata non a ideali generici, ma ad un “progetto di società” che riguardi il rinnovato rivolgersi all’Utopia.

L’Utopia può essere ricercata attraverso il conflitto, inteso come solo veicolo per l’avanzamento delle idee sulle quali fondare l’identità dei soggetti destinati a tramutarli in azione, tra i quali stabilire elementi di “etica della collaborazione”.

Una riconnessione, in sostanza, che deve avvenire tra principi ispiratori e pratica corrente: ciò che oggi sembra proprio essere venuto a mancare anche nelle stesse proposizioni di una filosofia politica unicamente legata all’estetica che ci appare non solo egemone ma addirittura dominante.

FRANCO ASTENGO

5 febbraio 2020

Foto di Tibor Janosi Mozes da Pixabay

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