Per essere ancora pericolosi sovversivi

Questa è una riflessione disomogenea, che non tiene conto di un susseguirsi di eventi, ma che fa riferimento ad una mera osservazione di fatti anche molto diversi l’uno dall’altro...

Questa è una riflessione disomogenea, che non tiene conto di un susseguirsi di eventi, ma che fa riferimento ad una mera osservazione di fatti anche molto diversi l’uno dall’altro eppure legati da comportamenti simili, da cause ed effetti a volte convergenti, altre volte solo avvicinabili.
Sono passati 46 anni dalla strage di piazza Fontana, quando una bomba esplose nella Banca dell’Agricoltura, quando si cercò il colpevole non tra chi lo era veramente ma tra chi doveva esserlo per una certa “ragion di Stato” che trovasse negli anarchici i responsabili senza appello, senza prove, ma per decisione politica, per un “comune sentire” che doveva essere alimentato e custodito.
Alimentazione e custodia di un pregiudizio volto a gettare discredito sugli ambienti che ieri ed oggi sono etichettati come “antagonisti”, in senso spregiativo, per significare che quella è gente che vuole solo provocare il caos e fomentare l’incertezza.
Da quando il movimento operaio e le sue propaggini politiche hanno preso a svilupparsi oltre un secolo e mezzo fa, poteri economici e politici hanno operato per nascondere la verità sullo sfruttamento del lavoro, sull’ingiustizia del profitto. Hanno capovolto la realtà e hanno tentato di etichettare i ribelli, i rivoluzionari e anche soltanto i critici più moderati del capitalismo come sovversivi pericolosi per tutti.
Invece quei sovversivi erano e sono giustamente pericolosi ma per una classe sociale ben determinata e distinguibile dalle altre: la classe borghese, la classe padronale, quella degli sfruttatori del lavoro altrui. Quella di chi accumula ricchezze, chiede sempre defiscalizzazioni e sorregge governi che promuovano la tanto celebre “pace sociale”.
E se ogni tanto serve mettere una bomba qua e là per destabilizzare il quadro delle lotte che vengono avanti e che si uniscono, ecco pronti i servitori politici di turno: i fascisti, ben pagati, per portare una valigetta piena di tritolo in piazza Fontana, un’altra alla stazione di Bologna, altre ancora su treni in corsa…
Non è cambiata la storia d’Italia da 46 anni a questa parte: non ci sono più le bombe che scoppiano nelle piazze, non ci sono più “anarchici distratti” che volano giù dalle finestre delle questure, ma ci sono sempre i depistaggi del potere, la repressione violenta contro chi mostra una alternativa ad un sistema che può essere cambiato radicalmente e superato.
Ogni tanto muore un ragazzo pestato a sangue da chi dovrebbe mantenere l’ordine pubblico. Quasi ogni giorno muore qualche operaio per la mancanza di sicurezza sul lavoro e non fa notizia perché lo stillicidio è continuo, quasi cinicamente monotono nel ripetersi quotidianamente.
E poi, arrivando ai giorni e alle ore nostre, succede che si solleva la cortina fumogena sulla corruzione bancaria e sui traffici loschi dei finanzieri di mezza Italia, perché chi è stato derubato dei risparmi di una vita, quella vita stessa se la toglie impiccandosi.
La crudeltà di un sistema economico che spinge alla sofferenza milioni di persone e privilegia la felicità di pochissime, che spinge al suicidio e all’omicidio, che condanna al disastro chi ha onestamente lavorato per una esistenza intera dovrebbe essere il perno attorno al quale far rinascere la critica politica, economica e sociale di una sinistra che invece bada a tatticismi, ad alleanze ispirati ad una vocazione di “salvezza nazionale” con chi questa nazione la sta distruggendo dal tavolo di Palazzo Chigi.
Non è solo una politica miope, è un’autoscreditamento per chi voleva essere “modernamente di sinistra” e si è dimostrato essere invece soltanto un servo sciocco in nome di una ricerca di governismo che è tutto tranne aspirazione al governo del Paese, delle comunità locali.
Un compagno in questi giorni ha detto: “Siamo comunisti? Bene, torniamo a parlare di comunismo, spieghiamo alla gente cosa vogliamo”. Ha ragione: torniamo alla radice delle cose, torniamo al primo “perché” facciamo politica e chiediamo ad altri di farla.
Torniamo ad essere diversi da tutti gli altri: a cominciare dalle parole, da una cultura nuova e antica al tempo stesso.

MARCO SFERINI

12 dicembre 2015

foto tratta da Pixabay

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