Non è possibile unire la sinistra moderata e quella antiliberista

Repetita iuvant, sostenevano i nostri antenati di romaniche e latine generazioni passate. E allora ripetiamoci ancora una volta perché sembra proprio che anche gli altri si ripetano. Ma loro...

Repetita iuvant, sostenevano i nostri antenati di romaniche e latine generazioni passate. E allora ripetiamoci ancora una volta perché sembra proprio che anche gli altri si ripetano. Ma loro negli errori del passato che non passa, di quella politica fatta di sottili linee di confine che si è sempre sul punto di attraversare e che l’indecisione non consente di farlo: schierarsi o non schierarsi? Avvicinarsi o restare lontani? Delineare una sinistra dai chiari contorni programmatici o rimanere nel vago di terminologie come “moderati”, “centrosinistra”, “riformismo”, “democrazia”, “progressismo”?
E’ il dilemma di chi ha votato SI’ al referendum del 4 dicembre scorso e oggi vuole fondare “Insieme”. Ed è il dilemma anche di chi è uscito da poco dal Partito Democratico e non sa, in virtù dei foschi scenari che porterebbero al voto, se riallacciare un dialogo con Renzi o farlo per interposta persona, alleandosi con coloro che auspicano il ritorno non dello Jedi ma del centrosinistra, quindi di un luogo della geopolitica oggi impossibile da intravedere e soprattutto da ricostruire. Una impresa ancora più ardua della ricostruzione della vera sinistra, quella di alternativa che deve necessariamente essere diversa da tutte le altre forze politiche. E, in questa sua rinnovata e ritrovata diversità, essere riconoscibile per punti programmatici, idee e proposte concrete.
Il latinorum d’inizio, comunque, era riferito a ciò che sto per scrivere ora, ad una domanda dal sapore volutamente retorico: è possibile per chi vuole rifare una sinistra degna di questo nome, alternativa e antiliberista, anche soltanto ipotizzare un cammino comune con Campo progressista e Articolo 1? E’ evidente che, se queste due ultime forze o debolezze politiche puntano alla ricostruzione del centrosinistra come programma minimo e a farlo col PD come programma massimo, non ci può essere nessun tracciato di cammino comune con Rifondazione Comunista.
E’ il mio libero, spensierato, innocente pensiero. Ma ritengo sia soprattutto una conclusione da trarre dall’inevitabile che ci viene presentato sotto gli occhi e alle orecchie ogni giorno che passa. Le dichiarazioni di Pisapia e di Bersani sono eloquenti: l’uno ricerca ancora Romano Prodi come ideale leader del centrosinistra di nuovo modello; l’altro si definisce “liberale” e rifugge il programma pubblico di Corbyn.
Se qualcuno trova elementi di anche solo vaga sinistra in tutto ciò è pregato di riferirmeli, perché io, del tutto sinceramente, non ne scorgo alcuno.
Ma forse occorre intendersi sempre meglio e una volta per tutte su cosa vuol dire per noi comunisti la parola “sinistra”.
Lasciando stare etimologie e origini storiche risalenti al posizionamento dei delegati del Terzo Stato guidati da Mirabeau nella sala degli Stati Generali a Versailles, un tempo “sinistra” voleva dire: socialdemocrazia, socialismo, comunismo. Riduciamo a tre grandi settori le molte correnti in cui il progressismo italiano si è diviso nel corso dei decenni, dei secoli (si potrebbe ormai dire).
Socialdemocrazia e socialismo col tempo avevano assunto un carattere riformista nel ricercare la partecipazione al governo con forze centriste come la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale Italiano e il Partito Repubblicano Italiano.
Il Partito Comunista Italiano e altre forze comuniste come “il manifesto”, il Partito di Unità Proletaria e, infine, Democrazia Proletaria, avevano scelto, benché su posizioni molto differenti tra loro, di collocarsi in alternativa al riformismo socialdemocratico-socialista.
Per decenni questa è stata la distinzione nella sinistra italiana tra riformisti e rivoluzionari. Sappiamo benissimo tutti che il PCI avrebbe potuto essere “rivoluzionario” in altro contesto ma che nella situazione politica italiana era un partito riformista di opposizione, mentre altri erano riformisti di governo.
Ma va riconosciuto al PCI di aver ottenuto con la sua grande presenza nel Paese (“Il Paese nel Paese” di pasolinana memoria) molto dalla sua collocazione all’opposizione; di aver stimolato l’azione governativa e di averla spesso cambiata anche con coinvolgimenti di massa in consultazioni referendarie sia attraverso il piano sindacale sia attraverso quello strettamente politico e parlamentare.
Oggi la sinistra in Italia è residuale un po’ ovunque: sia nel campo del neoriformismo ulivista (di cui Romano Prodi, giustamente e saggiamente, non vuole sentire parlare come rievocazione del passato per la formazione di un nuovo aggregato politico di quella fatta) sia in quello dell’alternativa antiliberista.
L’unità di queste due sinistre è impossibile e se dovesse realizzarsi sarebbe a scapito di una delle due culture: non si può essere liberali e puntare al centrosinistra e, al contempo, sposare l’antiliberismo. Sono due fronti contrapposti, due visioni della società e dell’economia opposte.
A differenza del PD renziano, magari con Pisapia e Articolo 1 si potranno condividere lotte civili e sociali, ma una piattaforma programmatica unica, quindi un soggetto unitario insieme sarebbe la morte della sinistra riformista o della sinistra di alternativa antiliberista.
Non esiste un minimo comune denominatore così essenzialmente piccolo da riuscire a ricondurre a sintesi intenzioni e volontà diametralmente opposte.
Il riconoscimento di questa osservazione che potrebbe sembrare più teorica che pratica lo si ha nel comportamento che al Senato hanno adottato senatori vicini a Campo progressista: “Voteremo sì”, riferisce il manifesto, in merito ai voucher e alla fiducia posta dal governo sul pacchetto complessivo di riforme. Altri di Articolo 1 intendono uscire dall’Aula.
Traetene le conclusioni voi: i voucher rientreranno dalla finestra perché qualcuno, tra gli altri, è uscito dalla porta.

MARCO SFERINI

15 giugno 2017

foto tratta da Pixabay

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