Nazionalsocial network

Circa dieci anni fa, più per curiosità che per voglia di uniformarmi all’onda montante delle reti sociali, mi iscrivevo anche io al mondo della comunicazione tra “bacheche”, “pagine”, fatta...

Circa dieci anni fa, più per curiosità che per voglia di uniformarmi all’onda montante delle reti sociali, mi iscrivevo anche io al mondo della comunicazione tra “bacheche”, “pagine”, fatta di “post” e di “like”.
Dopo l’arrivo di internet a fine anni ’90 e l’introduzione dei telefonini che sempre più diventavano altro dal telefono propriamente inteso, quella dei “social network” era la nuova frontiera della rivoluzione moderna, di una interazione tutta capovolta rispetto ad un passato fatto di contatti reali, di concretezza e di visibilità manifesta dei sentimenti e delle emozioni attraverso le espressioni del viso de visu.
In questi dieci anni di frequentazione dei “social” non è solamente mutata la comunicazione su Internet e la scala dei valori è passata dall’assegnare un primato alle pagine personali rispetto ai siti web; in questi dieci anni è cambiata radicalmente la formazione della cosiddetta “opinione pubblica”.
Un tempo questa si creava per strada, al bar, nelle piazze: ad inizio ‘900 grazie al “sentito dire” di chi acquistava i quotidiani e li leggeva e poi oralmente trasmetteva il tutto anche a chi non aveva la possibilità di andare all’edicola e con pochi centesimi comperare quello che oggi chiamiamo – forse un po’ spregiativamente – il “cartaceo” oppure, non sapendo né leggere né scrivere non aveva proprio motivo di recarsi ad un edicola.
Poi la radio, poi la televisione, poi i primi computer hanno modificato la comunicazione: l’hanno resa “di massa”, anche “delle masse”. Il maestro Manzi ha alfabetizzato milioni di italiani che erano arrivati a venerande età senza sapere come si scrivesse il semplice proprio nome e cognome. Tutta gente che firmava con la X e con la X votava riconoscendo i simboli elettorali che, infatti, contenevano raramente delle scritte estese. Al massimo degli acronimi.
Trovo fuorviante il dibattito che a volte si apre nei troppi momenti di litigio televisivo (impossibile chiamarli “confronti”) secondo cui i mezzi di comunicazione abbiano imbarbarito la società.
L’hanno evidentemente condizionata, ma non possiamo dire che la radio abbia reso gli italiani più feroci gli uni verso gli altri o verso altri popoli. Nemmeno ha partecipato all’emancipazione sociale sviluppando una lotta di classe moderna.
La televisione ha alzato l’asticella dello scontro: la visibilità delle idee ha coinvolto maggiormente l’individuo-cittadino e l’ha portato ad estraniarsi dallo stimolo dialettico per diventare tifoso di questa o quella parte in un processo, in un fatto di cronaca, in un avvenimento sportivo. E, se per questo ultimo ambito è abbastanza naturale, fu davvero già inquietante all’epoca assistere alla nascita dell’innocentismo e del colpevolismo in un caso di cronaca controverso come quello di Enzo Tortora che venne messo sulla graticola, ingiustamente accusato, massacrato dai mass media e da buona parte dell’opinione pubblica.
Iddio ci salvi dalla pubblica opinione: non è mai opinione ma sovente è condanna aprioristica, pregiudiziale, piena di rancore immotivato, scatenante le pulsioni più recondite di odio e di disprezzo che covano negli antri inconsci dell’animo umano.
Ma Iddio, se anche ci avesse potuto salvare dalla formazione dell’opinione pubblica in questi moderni stadi di involuzione, non avrebbe magari mai pensato che i “social network” avrebbero fatto fare un salto di qualità (di grande squalificazione) alla cantieristica costruttrice del comune sentire.
Un evoluzionismo al contrario, un ritorno ad una gogna in salsa moderna: la televisione, almeno, aveva il pregio – tra tanti difetti per l’essere umano – di essere unidirezionale: si recepisce, non si può diventare protagonisti fuori dal video, seduti in salotto. Al massimo si litiga in famiglia, con gli amici sempre al bar, da quattro si diventa tre, ma pur sempre di liti sociali si tratta.
Invece, nell’epoca moderna dei “social” ciò che un tempo era proprio “sociale” assume tutt’altra connotazione: ognuno di noi si reca sulle reti sociali e diventa protagonista sulla propria bacheca, nella propria gabbia di canarino che cinguetta o passando le giornate a fotografare qualunque cosa: piatti di pasta, paesaggi, autoscatti (chiamateli pure “selfie”), ritratti di ritratti o c’è chi come me fa dei “salvaschermo” (chiamateli pure “screenshot”) dei propri articoli o di altri autori de la Sinistra quotidiana perché “non si sfugge alla macchina”, diceva un celebre autore francese.
Non si può uscire da questo groviglio di necessità di vita che sono le relazioni antisociali dei “social network”. Ci allontanano gli uni dagli altri, ci creano facili alibi per evitare riunioni politiche, incontri; sono il nuovo ricettacolo della pelandroneria e della non-voglia di fare, di agire.
Certo, ci consentono di comunicare velocemente, ma questa velocità ci sta a poco a poco facendo deragliare dal binario di una vita che prima era indubbiamente più lenta ma dove almeno le opinioni venivano scambiate, come prima ho scritto, de visu.
Un corriere postale nella Francia rivoluzionaria impiegava ben undici giorni per far giungere a Marsiglia o a Tolosa la notizia che a Parigi era stata presa la Bastiglia. Oggi la presa di qualunque fortezza del potere la seguiremmo con le ultime notizie (chiamatele pure “breaking news”) e col paradosso di giornalisti professionisti con in mano il tablet o lo smartphone (il “telefono semplice”) per seguire gli aggiornamenti nella diretta della diretta.
Le potenzialità di questo grande balzo tecnologico-comunicativo sono enormi e hanno globalizzato il pianeta nel vero senso della parola: il mercato si è potuto espandere più facilmente e altrettanto più semplicemente ha potuto imbrogliare con i suoi sporchi affari sulla pelle dei più poveri e deboli del pianeta.
Ma le potenzialità di questa nuova forma di “socializzazione” delle opinioni e dei pensieri sovente degenera e diventa una esaltazione dell’ego a dismisura incommensurabile: ciascuno è protagonista ben oltre i quindici minuti di notorietà attribuiti come frase storica al grande Warhol; ognuno di noi “possiede” un suo spazio e permette che altri vi penetrino, commentino ma poi si scatena il botta e risposta, la compulsione telematica prende il sopravvento e nascono i mostri ridicolizzati seriamente da Crozza con Napalm51.
Il condizionamento psicologico e politico delle masse è, dunque, più facile per forze politiche che soffiano sul fuoco dell’odio e della crudeltà: uso spesso questo termine ultimamente, perché credo sia quello che meglio descrive il misto fra pregiudizi e odio che ispira il moderno razzismo.
Dire che è “cattiveria” sarebbe riduttivo. Siamo davanti ad una crudeltà che si alimenta attraverso “percezioni” della realtà, non in base a fatti concreti. Ciò che si sente dire è vero. Ciò che è vero spesso non lo si sente dire.
Fiumi di commenti pieni di crudeltà vengono scritti in risposta a “post” di chi mostra un po’ di umanità verso il diverso da noi, verso l’oppresso per ragioni di etnia, di provenienza, di cultura, di adesione politica a questo o a quel progetto.
Ma sono molto pochi i commenti ragionati per cui non serve necessariamente la pacatezza, ma lo sforzo di non cadere nel personalismo, nello scontro frontale senza magari nemmeno conoscere di persona, aver mai visto o incontrato il proprio interlocutore sui “social”.
E’ una nuova forma di imbarbarimento anticulturale perché antisociale, fondata sulla sola totale e unica espressione individuale che ci allontana dalla concezione sociale della persona e la distrae dal suo ruolo ambivalente: unica e collettiva al tempo stesso. Unica nell’essere tale per natura, collettiva perché siamo “animali sociali” e anche “politici”, come insegnava Marx.
Ma, per l’appunto, fermarsi lentamente ad apprendere è un esercizio ormai quasi sconosciuto alle masse capaci solo di odiare, disprezzare e condannare. Come nei tempi bui del nazionalsocialismo: quando la nazificazione, che pareva impossibile tanto ai bavaresi che scarcerarono Hitler quanto ad Hindenburg che dovette ad un certo punto consegnarli il cancellierato, divenne progressivamente l’unica morale sociale, civile e politica di un Paese che in contemporanea vedeva fuggire Thomas Mann, Bertolt Brecht, Albert Einstein e che era la patria di Goethe, Marx ed Engels.
Soprattutto oggi non siamo al sicuro da questa ritrovata voglia di crudeltà, di odio apertamente espresso: non ci si vergogna più di essere razzisti. Ci vogliono far vergognare di essere antifascisti, antirazzisti, comunisti, “buonisti”.
I “social network”, uniti alle televisioni e anche al resto del mondo dell’informazione hanno una grande responsabilità in merito: eterodiretti dalle voglie del mercato, dall’anestetizzazione delle masse con false problematiche, con la creazione di isterismi di massa.
Meglio ancora delle guerre scatenate per far tacere le rivendicazioni del proletariato di inizio ‘900. Il nazionalsocial network è appena cominciato…

MARCO SFERINI

30 giugno 2018

foto tratta da Pixabay

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