Lo stalinismo

Pubblichiamo questo saggio di Dino Greco sulla figura di uno dei comunisti che ha ucciso l’esperimento comunista in Unione Sovietica e che ne è stato forse il maggior protagonista...
Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin

Pubblichiamo questo saggio di Dino Greco sulla figura di uno dei comunisti che ha ucciso l’esperimento comunista in Unione Sovietica e che ne è stato forse il maggior protagonista in questo senso.
E’ una disamina molto articolata e dettagliata che punta a collegare passato e contemporaneità: per evitare una seconda volta che il comunismo si trasformi nel nemico di sé stesso.

Quando si parla dello “stalinismo”, bisogna innanzitutto avere cura di scansare le rappresentazioni agiografiche, di comodo, secondo cui prima di Stalin c’era tutto il bene, poi tutto il male, perché questo modo di procedere impedisce di capire le ragioni profonde di un processo degenerativo che Stalin incarnò con forme di assolutismo cesaristico.

Un vizio, questo, alimentato da Nikita Chruscev con il rapporto segreto al XX congresso del Pcus, che impedì alla “destalinizzazione” di produrre una vera trasformazione dei rapporti sociali in direzione del comunismo, cioè verso la socializzazione dei mezzi di produzione e del potere.
Del resto, i problemi, nella Russia rivoluzionaria, iniziano subito: la rivoluzione in Occidente, sulla quale aveva investito tutto il gruppo dirigente bolscevico, credendola matura ed imminente soprattutto il Germania e in Italia, non si verifica affatto perché il movimento operaio va incontro in quei paesi ad una sconfitta drammatica.
La Russia sovietica è sola, isolata, accerchiata all’esterno, attaccata dalle forze controrivoluzionarie sostenute da Francia e Inghilterra, con gran parte della popolazione stremata dalla fame.
Difendersi, a qualsiasi costo, diventa l’imperativo incondizionato: è il durissimo “comunismo di guerra”.
Ma a guerra civile conclusa e vinta, il malcontento contro le requisizioni e il lavoro obbligatorio non trovava più modo di zittirsi.
Diceva un delegato contadino ad un congresso dei soviet: “I contadini lavoreranno sempre, non risparmieranno i loro figli, non risparmieranno il sangue. Siamo stati in Germania, siamo stati sugli Urali, abbiamo battuto Kolchak abbiamo battuto Denikin, li batteremo ancora. Sono scappati. Se torneranno li cacceremo un’altra volta. Ma vorremmo non essere tormentati invano… il lavoro deve essere libero…”.
Un accurato studio delle lettere e delle petizioni che giungevano a Mosca, firmate spesso da interi villaggi e portate talvolta direttamente da messi contadini, offre un termometro del crescente malcontento delle campagne sul finire del 1920: vi si descrive una situazione insostenibile. Per di più esse provehnivano in buona parte da quelle regioni centrali che avevano tenuto duro per tutta la guerra.
La chiusura delle fabbriche e la riduzione delle razioni alimentari provocò scioperi a Mosca e Pietrogrado: particolarmente gravi quelli nella ex capitale del nord, dove fu nuovamente imposto lo stadio d’assedio.
I bolscevichi si sentivano rinfacciare ciò che essi stessi avevano sostenuto nei loro programmi e che ora non erano in grado di realizzare.
Ai primi di febbraio una conferenza dei metallurgici della regione moscovita chiese la fine delle requisizioni ai contadini. L’insieme della crisi finì per prendere un nome: Kronstadt.
La rivolta della celebre fortezza marittima, che con i suoi marinai era stata nel ’17 uno dei massimi focolai della rivoluzione, cominciò il 1° marzo del 1921 in connessione con gli scioperi di Pietrogrado.
Gli insorti rivendicavano “potere ai soviet, non ai partiti”, sognavano una “terza rivoluzione”, proclamavano: “abbasso la controrivoluzione di destra e di sinistra”.
L’offensiva era comunque diretta contro i bolscevichi, invitati ad abbandonare il potere.
Vi erano nella fortezza 20 mila militari, più qualche migliaio di operai. La stessa organizzazione comunista si trovò spaccata in tre tronconi, uno con i ribelli, uno neutrale e uno a loro ostile.
Un primo tentativo di riconquistare l’isola con un attacco dalla terraferma fallì l’8 marzo. L’insurrezione fu infine schiacciata con un’offensiva comandata da Trockij e Tuchacevskij. Ottomila insorti riuscirono a riparare in Finlandia.
Quella lotta furibonda fra uomini che uscivano appena da una guerra fatta insieme nel nome della stessa rivoluzione fu il sintomo più allarmante di un possibile crollo del potere nato nell’ottobre del ’17.
Nelle polemiche del tempo, come poi nei lavori degli storici sovietici, si è sempre indicata dietro le minacciose sommosse di quel periodo la mano dei vecchi partiti sconfitti, soprattutto menscevichi e socialisti rivoluzionari.
Ma nell’insieme è più convincente la descrizione delle forze in lotta così come risulta dalle memorie di Anastas Mikojan dedicate agli eventi di quel periodo e dagli archivi di Smolensk, descrizione che mostra come quei gruppi fossero sì attivi, ma del tutto impreparati a qualsiasi intervento egemonico.

La lotta politica fra i bolscevichi
Lo scontro partì da una forte reazione nel partito alla politica di militarizzazione scelta dal IX congresso.
Questa incontrava non solo l’opposizione dei decisti (il gruppo che aveva sempre criticato la tendenza al prevalere di metodi militari, “burocratici”, non democratici) ma anche quella dei sindacalisti.
L’urto si manifestò nel novembre del ’20 fra Tomskij, presidente del sindacato, e Trockij che voleva estendere al sindacato i metodi di militarizzazione adottati per l’esercito.
Tre le posizioni che si confrontano: quella di Trockij, che voleva andare verso “una trasformazione pianificata dei sindacati (…) in apparati dello stato operaio, cioè verso una graduale simbiosi fra organismi sindacali e sovietici”: era la tesi più autoritaria, appoggiata anche da Bucharin dopo un fallito tentativo di mediazione.
Al lato opposto c’era il gruppo dei sindacalisti, la cosiddetta “opposizione operaia” (il cui principale esponente era Sljapnikov, capo del sindacato dei metallurgici). Questi volevano che la direzione dell’economia da parte dei sindacati si esercitasse a tutti i livelli, partendo dalla singola azienda, mediante elezioni sindacali di coloro che dovevano gestire tecnicamente l’attività produttiva. Alla vetta, un “congresso nazionale dei produttori” avrebbe eletto la direzione centrale dell’intero apparato economico.
La terza posizione, del politbjuro, voleva un approccio più cauto ai compiti produttivi dei sindacati, visti piuttosto come una “scuola” di direzione, “scuola di comunismo”, che come organismi capaci di gestione economica, ma proprio per questo destinati a funzionare in un modo più normale e democratico di quanto non avessero previsto i metodi del comunismo di guerra e della militarizzazione.
Vista a distanza di tempo nel tragico quadro dell’epoca, quella discussione può quasi presentare aspetti di irrealtà.
Certo, vi furono affrontati temi di fondo per una società socialista, tanto che quello scontro offre ancor oggi spunti importanti di riflessione. La discussione d’altro canto non ebbe il tono di un semplice dibattito, ma quello di un’aperta lotta politica, con le asprezze che in essa sono inevitabili.

Il X congresso
Fu uno dei congressi più tesi e drammatici della storia bolscevica.
La questione centrale per Lenin: l’alleanza con i contadini, senza più distinzione fra ricchi e poveri, considerato il livellamento della loro condizione. La critica colpisce soprattutto Sljapnikov.
Fu riaffermata in quella sede una vecchia idea bolscevica: si sostenne che il partito restava l’avanguardia del proletariato, la sola forza capace di “unire, educare organizzare” la classe operaia e le masse dei lavoratori, e di “tener duro” anche in mezzo alle loro “oscillazioni” e ai loro “pregiudizi”.
Proprio per avere sottovalutato questi concetti, la posizione del gruppo di Sljapnikov fu considerata un uklon, una “propensione” cioè per l’anarcosindacalismo.
La parola uklon avrebbe assunto, sotto Stalin, un pesante significato peggiorativo o addirittura criminale, quello di deviazione o, peggio, di tradimento, con tutte le conseguenze del caso.
Una mozione sull’unità del partito mise al bando le frazioni organizzate e con una clausola, tenuta segreta, autorizzò i massimi organi del partito – Comitato centrale e Commissione Centrale di Controllo – a espellere gli stessi dirigenti eletti dal congresso qualora non avessero rispettato il divieto: la decisione andava presa a maggioranza di due terzi in seduta congiunta dei due organismi.
La critica pubblica di Lenin al comunismo di guerra, come soluzione imposta dalle circostanze. La carestia: 3 milioni di morti.
La Nep (Nuova politica economica) e la reintroduzione della libertà di commercio che scontava una certa rinascita del capitalismo.
Si entra in un sistema di economia mista: le nazionalizzazioni vengono bloccate. Anche le imprese passate in proprietà statale potevano essere date in affitto o in concessione a capitalisti russi o stranieri con alcune garanzie.
Anche l’industria nazionalizzata doveva operare secondo leggi mercantili.
Per il partito di Lenin la Nep era una ritirata, “la fine delle illusioni”. Per gli avversari era il segno che i bolscevichi ammettevano il proprio fallimento e rinunciavano ai propri progetti.
E’ stato rimproverato a Lenin, in sede storica, di non aver cercato in quelle circostanze una più ampia coalizione, una maggiore “armonia politica”, anche “a costo di sacrificare il monopolio del potere”.
Ma era realistica una simile soluzione? Non si conquista il potere al prezzo di una simile guerra civile, un potere in cui si vede per di più la sola garanzia che gli obiettivi della rivoluzione, una volta passata la catastrofe, saranno comunque raggiunti, per poi cederlo di fronte alle difficoltà, per quanto tragiche esse siano.

La Nep funziona. Ma il risvolto sul piano politico è diverso. In quel periodo viene sancita l’esistenza di un unico partito nella Russia sovietica. Si pronunciò in questo senso il II congresso comunista che si svolse a Mosca fra la fine di marzo e i primi di aprile del 1922.
La risoluzione diceva: “Il partito comunista russo è rimasto l’unico partito legale del paese”. L’espulsione dal paese e l’arresto di menscevichi e socialisti rivoluzionari. Il processo di progressiva identificazione del partito con lo stato: le principali decisioni vengono prese nelle massime istanze del partito: vero centro di rigente del paese diventa il Politbjuro.
Il prevalere del momento organizzativo dette rilievo nel partito a un organismo, che sino a quel momento aveva avuto un ruolo secondario: la segreteria.
All’indomani dell’XI congresso la nuova carica di segretario generale viene affidata a Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin.
Inizia lo scontro fra Lenin (già malato) e Stalin sulla questione dei rapporti fra le repubbliche.
Stalin diviene l’interprete più risoluto delle propensioni accentratrici che si erano sviluppate con la guerra civile. Rimasto isolato dalla discussione, Lenin si schierò contro quella soluzione, vide in essa un’espressione malamente mascherata del vecchio “sciovinismo grande russo” cui disse di volere dichiarare “guerra a morte”.
Per Lenin tutte le repubbliche dovevano federarsi a parità di diritti in una nuova unione: federale doveva essere anche la struttura dei comuni organi di governo.

Lo scontro si fa aspro con reciproche accuse
Il politbjuro accoglie con alcuni compromessi i suggerimenti di Lenin. Nel dicembre del ’22 nasce l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Ma lo scontro si riaccende. La “questione georgiana”.
Lenin attacca di nuovo Stalin e la sua “fretta accentratrice”. Dice: “Occorre lasciare al governo centrale poteri solo in materia di difesa e di diplomazia e dare alle repubbliche “piena autonomia in tutto il resto”.
Nelle ultime note sulla questione nazionale Lenin usò contro Stalin parole durissime, accusandolo di essere un “rozzo poliziotto grande-russo”.
Per quanto laboriosa e contrastata, la formazione dell’Unione fu una grande iniziativa politica. Essa dette vita ad un grande stato sovranazionale in un’epoca in cui la stessa spinta all’internazionalizzazione della vita economica, provocata dalla diffusione mondiale del capitalismo, gettava in crisi o sfasciava tutti i vecchi imperi, ma poneva all’ordine del giorno la nascita di nuove formazioni multinazionali.
La “soviettizzazione” delle terre periferiche: sconvolgimento della vita e del modo di pensare e di vivere di genti rimaste a livelli di sviluppo arcaici.
Il tramonto dell’ipotesi di una rivoluzione nei paesi europei di capitalismo sviluppato.
Da quel momento l’attenzione di Lenin si rivolge più intensamente verso l’Oriente, sulle masse dei paesi coloniali e semicoloniali che costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione terrestre.
Lenin chiedeva ai comunisti di apprendere a conquistare “non solo la maggioranza degli operai, ma anche la maggioranza dei lavoratori e della popolazione rurale sfruttata”.
Anni dopo, in una delle sue pagine più note, Antonio Gramsci sintetizzò il nuovo indirizzo del ’21 come un “mutamento dalla guerra manovrata alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente” e si rammaricò che Lenin non avesse poi avuto “il tempo di approfondire la sua formula”, la quale esigeva fuori dalla Russia una “ricognizione del terreno ed una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza” esistenti nella “struttura della società civile” in Occidente, cioè uno sviluppo rivoluzionario corrispondente a condizioni assai diverse da quelle russe.
Nel novembre del ’22, con quello che fu il suo ultimo discorso rivolto ad un uditorio straniero, durante il IV congresso del Comintern, Lenin criticò la risoluzione con cui il precedente congresso aveva esteso a tutti i partiti dell’Internazionale le norme organizzative dei bolscevichi, “perché troppo russa…interamente permeata di spirito russo”.

Il “testamento” di Lenin
Il colpo apopletico che a metà di marzo ’23 mette Lenin fuori gioco.
L’importanza straordinaria degli scritti di quest’ultimo periodo. Il giudizio sull’importanza epocale della rivoluzione.
Tuttavia Lenin constata “il divario tra la grandezza dei compiti posti e la miseria, non solo materiale, ma anche culturale: l’apparato statale, dopo la scossa dei primi mesi successivi all’Ottobre, era rimasto sostanzialmente quello ereditato dal passato, vecchio “fino all’impossibile, fino all’indecenza,”, pessimo, burocratico, “appena unto di olio sovietico”.
Nello Scritto sulla cooperazione l’impostazione di Lenin diviene assai diversa dal passato.
Quella stessa cooperazione che i bolscevichi avevano sempre ritenuto una manifestazione di semplice riformismo borghese gli appare nelle nuove condizioni come la via maestra per muovere verso il socialismo in Russia, specie nei villaggi.
Lenin pensa ad un movimento cui “partecipassero effettivamente le vere masse”: partecipassero “in modo attivo e non passivo”.
In tale luce si intuisce meglio il senso della più inattesa fra le ultime proposte di Lenin, tendente ad avviare una completa riforma dell’apparato statale.
La riforma doveva poi riflettersi anche nel partito: la proposta di allargare il comitato centrale sino a 50 e persino 100 membri con l’inclusione di operai, ma non di coloro che avevano già effettuato “un lungo servizio nei soviet”, cioè che erano passati da tempo a funzioni di governo.
Lenin si preoccupava cioè di combattere la burocrazia oltre che negli apparati statali anche in quelli di partito, là dove si manifestava.
Non solo. Alla futura commissione di controllo egli voleva fornire il diritto di sindacare la stessa attività del Politbjuro, in modo che nessun dirigente, “né il segretario generale, né alcun altro membro del comitato centrale” potesse impedirle di essere informata di tutto e di verificarne con scrupolo il funzionamento.
Lenin era sempre più preoccupato per la struttura centrale del potere e per i limiti degli stessi uomini che lo esercitavano.
In quei giorni egli scrisse quella “lettera al congresso” che poi è divenuta celebre come il suo “testamento”.
Le due cose irrinunciabili: l’alleanza con i contadini e l’unità del partito, entrambe minacciate.
In particolare, lo scontro aperto al vertice fra Stalin e Trockij. Il giudizio su entrambi e su altri quattro dirigenti.
Per tre di essi (Stalin, Trockij e Pjatakov) il comune rimprovero di administrirovanie, cioè di “autoritarismo”, di utilizzare “metodi amministrativi” per affrontare problemi politici. Su Stalin: “Ha concentrato nelle sue mani un immenso potere e non sono sicuro che sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza”; su Trockij: “personalmente il più capace, ma non si distingue solo per qualità eminenti”, bensì “per un’eccessiva sicurezza di sé”; sul giovane Bucharin: “validissimo ed importantissimo teorico…prediletto di tutto il partito”, ma vi è in lui “qualcosa di scolastico: non ha mai compreso veramente la dialettica”; su Zinov’ev e Kamenev si limitava ad osservare come non fosse stato “casuale” il loro atteggiamento nell’ottobre del ’17 (quando temettero che la rivoluzione avrebbe avuto lo stesso esito della Comune parigina), ma invitava a non ricorrere, per loro come per Trockij, a rimproveri relativi al passato.
Ma il fuoco di fila di Lenin si concentrò soprattutto su Stalin. Pochi giorni dopo egli aggiunse al “testamento” un non meno celebre codicillo, con cui chiedeva di scegliere un altro segretario generale perché Stalin era “troppo grossolano”, “difetto intollerabile” per chi ricopriva quella funzione. Al suo posto andava messo qualcuno che fosse “più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc.”.
Nella sua estrema ricerca Lenin appare quasi isolato.
La cosa non è di per sé sorprendente. Più volte quando egli si era presentato al partito con posizioni o idee nuove (aprile e ottobre ’17, pace di Brest, svolta della Nep) era andato da solo avanti agli altri e li aveva indotti a seguirlo con una lotta politica. Per quest’ultima battaglia gli mancarono il tempo e le forze.
Il testamento di Lenin non viene letto al XII congresso. Il codicillo sul fatto che il politbjuro non poteva impedire in alcun modo il controllo sulla propria attività comparirà nel 45° volume delle opere complete solo nell’edizione del 1970.
Salvo i principali articoli, gli ultimi scritti di Lenin, indispensabili per la comprensione del suo ultimo pensiero, rimasero a lungo segreti, furono considerati addirittura inesistenti durante il periodo della dittatura staliniana e pubblicati solo dopo il XX congresso del Pcus, nel 1956.
Evidenti tratti di cesarismo si affermano subito dopo la scomparsa di Lenin (trionfalismo; ogni critica del partito viene bollata come “oggettivamente menscevica”; vittoria dell’apparato staliniano fondato su una gerarchia di segretari; facoltà di espellere chiunque fosse sospettato di frazionismo).
Il dilemma di Trockij che tace al congresso, non ascoltando i consigli di Lenin che aveva cercato in lui un alleato dopo avere intuito tutto il peso del suo contrasto con Stalin.
Lenin muore il 21 gennaio del ’24. Prime manifestazioni di “culto” per il capo defunto, così estranee al carattere di Lenin. Pietrogrado diventa Leningrado. Poi si passò dai morti ai vivi: Caricyn diventerà Stalingrado nel 1925.
La formula icastica usata da Stalin per officiare la cerimonia funebre: “Noi ti giuriamo, compagno Lenin…”.

Rapidissima ascesa di Stalin
Su di lui Trockij: “La più cospicua mediocrità del partito”.
In un abbozzo di opuscolo del’21, Stalin tratteggiava una sua idea aristocratica del partito comunista come “stato maggiore del proletariato”, una sorta di “Ordine dei Portaspada in seno allo stato sovietico del quale dirige gli organi e ispira l’attività”.
Scrive ancora Stalin: “L’arte militare ha il compito di assicurarsi tutti i tipi di truppa, di perfezionarli e di saper combinare abilmente le loro operazioni. Lo stesso si potrebbe dire delle forme di organizzazione in campo politico”.
“E’ indispensabile che il partito si circondi di una larga rete di apparati di massa, che siano nelle sue mani antenne con cui esso trasmette la sua volontà alla classe operaia, mentre la classe operaia si trasforma da massa dispersa in esercito del partito”.
Le “cinghie di trasmissione”: i sindacati, le cooperative, il Komsomol, le assemblee femminili, la scuola, la stampa.
Quanto a sapere che cosa le “cinghie” dovessero trasmettere, Stalin parlò con chiarezza di “direttive”: “la dittatura del proletariato consiste nelle direttive del partito”.
Che cosa era proletario e che cosa non lo era sarebbe stato da quel momento deciso dal vertice.
Più tardi Stalin teorizzò il sistema monopartitico come il solo corretto per qualsiasi esperienza socialista.
La stessa struttura dello stato sovietico si disegnava per Stalin come una piramide a più piani, che dal vertice scendeva verso la periferia e che funzionava in pratica a senso unico, dall’alto in basso. La “gerarchia dei segretari” ne era un elemento essenziale.
Ricercatori sovietici hanno sostenuto che vi fosse in lui un’influenza di Sergej Necaev, il più estremista dei populisti ottocenteschi nel sostenere che qualsiasi mezzo, anche il più odioso, dovesse essere messo al servizio della rivoluzione e che la stessa organizzazione di rivoluzionari dovesse essere dominata dalla volontà di pochi individui disposti a tutto.

Il camaleontismo di Stalin
Va sottolineato che Stalin fu accorto a professarsi semplice allievo di Lenin o a coprirsi con qualche riferimento a lui, proprio quando più si discostava dalle sue idee, poiché il pensiero di Lenin restava fonte indiscussa di autorità.
L’apparato statale, da Lenin descritto come “pessimo fino all’indecenza” e “appena unto dell’olio sovietico” viene descritto poco dopo da Stalin, nel XII congresso, “un tipo di macchina buono…giusto…il più alto tipo di apparato statale in confronto a tutti quelli esistenti nel mondo”.
“Il socialismo in un paese solo”: lo scontro con Trockij, accusato di disfattismo. In realtà quest’ultimo non sosteneva affatto che si dovesse rinunciare a “costruire il socialismo” in attesa della rivoluzione mondiale, al contrario, egli era un tenace sostenitore di un’industrializzazione più celere (“trasformare la Russia sovietica da paese importatore di macchine e attrezzature in paese produttore di macchine e attrezzature”). Solo precisava che lo sforzo sarebbe sfociato in un’autentica società socialista entro un quadro internazionale, non nazionale.
La critica alla degenerazione burocratica, “termidoriana”, alla “rivoluzione tradita”.
L’alleanza antitrozchista: il triumvirato Stalin-Zinov’ev-Kamenev. L’allontanamento di Trockij dall’esercito rosso.
Chiusi i conti conti con quest’ultimo la tenaglia si stringe intorno a Zinov’ev e Kamenev.
Questi attaccano Stalin, chiedono che la segreteria torni ad essere un organo tecnico, ricordano (Sokol’nikov) che non c’era mai stato un segretario generale ai tempi di Lenin, affermano che quest’ultimo aveva sostenuto la progressiva abolizione di tutte le classi e dello stato.

La lacerazione della vecchia guardia leninista
L’opposizione si presenta come una tendenza di “sinistra”(aumento dei salari operai, più forte tassazione della ‘nuova borghesia’, cioè dei Nepman e dei Kulak, un piano quinquennale imperniato sulla priorità dell’industria).
L’attacco è soprattutto nei confronti di Bucharin, considerato l’ala destra del partito.
L’ideologia del “socialismo in un solo paese” aveva un’altra conseguenza, che Trockij intuì: poiché la minaccia esterna alla costruzione di una completa società socialista veniva vista ormai non nell’assenza della rivoluzione altrove, ma nel rischio di un attacco armato, la difesa della pace, cioè la protezione dell’Urss da un intervento, non poteva non essere considerato compito prioritario degli altri partiti: l’azione dello stato sovietico diventava in questo senso legge anche per loro.

L’espulsione di Trockij e Zinov’ev. La liquidazione della Nep
Stalin torna al linguaggio del comunismo di guerra: liquidare i Kulak, passare alla collettivizzazione forzata, alle requisizioni.
Alla testa dei critici c’è questa volta Bucharin: “Non vi è collettivizzazione possibile senza una certa accumulazione nell’agricoltura, poiché le macchine non si ottengono gratis e con mille aratri di legno non si fa neppure un trattore”.
“Con i mattoni del futuro non si possono costruire le fabbriche di oggi”.
I contadini individuali erano la forza decisiva nelle campagne; occorreva salvare l’alleanza con loro, ormai posta in serio pericolo.
Ciò che aveva marcato profondamente il pensiero di Bucharin era stato lo stretto rapporto con Lenin, prima e dopo la rivoluzione, più di quanto qualsiasi altro dirigente bolscevico avesse mai fatto. Particolarmente importante fu l’assiduo legame con Lenin nell’ultimo periodo della sua vita, la familiarità con la sua estrema riflessione.
Bucharin descrive Stalin come un Gengiz-Khan deciso ad eliminare con la forza tutti i compagni e rivali di un tempo.
Proprio allora Stalin citò con ammirazione l’opera di Pietro il Grande che “aveva costruito febbrilmente fabbriche e officine per rifornire l’esercito e rafforzare la difesa del paese”.

L’epurazione sistematica degli oppositori, la parola d’ordine dell’autocritica, l’esilio di Trockij
Al plenum dell’aprile ’29 Stalin pronuncia contro Bucharin un discorso di estrema violenza, dove un tono di assoluto disprezzo introduceva contro l’avversario oscure minacce, già deformando la storia della sua vecchia opposizione al trattato di Brest Litovsk con una vaga insinuazione che Bucharin poteva non essere stato allora estraneo ai progetti di “arrestare Lenin”.
Stalin vara la ben nota concezione – prodromica delle purghe più dure – secondo la quale man mano che ci si avvicina al socialismo aumenta la recrudescenza della lotta di classe. E non solo contro i Kulak ma nel partito stesso.
L’attacco contro la socialdemocrazia, giudicata come il “più importante sostegno” rimasto alla borghesia capitalistica, quindi il massimo ostacolo sulla strada della rivoluzione avanzante.
Questa tesi trova la sua triste sintesi nella formula del “socialfascismo”, con cui socialdemocrazia e fascismo venivano posti sullo stesso piano, come forme alternative e intercambiabili di dominio della borghesia capitalistica.
L’offensiva contro la “destra” fa espellere e mettere in disparte dall’Internazionale e dai singoli partiti tutta una serie di dirigenti non disposti a ratificare la svolta staliniana: i tedeschi Ewert, Brandler, Thaleimer, lo svizzero Humbert-Droz, l’italiano Tasca, i cecoslovacchi Smeral, Kreibich, Jilek e molti altri.
Anche il Comintern veniva indotto a trasformarsi in una cinghia di trasmissione.
La grande crisi del ’29 e il vantaggio politico e di immagine che ne trae l’Urss: questo rimane un punto di forza: altrove c’era disoccupazione e stagnazione, nell’Urss si indicava un’altra strada possibile.

Il I° piano quinquennale: grandezza e tragedia
Aumentare la produzione industriale del 180% nel quinquennio: le fabbriche di trattori di Stalingrado e Celjabinsk, quella di Charcov, le grandi officine pesanti di Sverdlosk e di Kramatorsk, le imprese automobilistiche di Niznji Novgorod e di Mosca, la prima fabbrica di cuscinetti a sfera, i complessi chimici di Bobrikovo e di Berezniki.
Molte imprese, a cominciare dai due colossi siderurgici sorgevano in piena steppa o in luoghi dove comunque non c’erano infrastrutture, fuori o lontano dai centri abitati.
La storia dei grandi cantieri fu straordinaria e drammatica. Essa resta una delle più sconvolgenti imprese del secolo: fu insomma un grande assalto più che un piano di lavoro.
Sostenne Stalin, nel giugno 1930, al XVI congresso del partito, che se non ci fosse stata l’idea del “socialismo in un paese solo” quello slancio non sarebbe stato possibile.
Stalin: “Noi siamo in ritardo sui paesi avanzati da 50 a 100 anni. Dobbiamo coprire questa distanza in 10 anni. O lo faremo o saremo schiacciati”. Dieci anni dopo sarebbe stato il 1941, l’anno dell’aggressione nazista all’Urss.
Per offrire una possibilità di valutazione, diremo che quelle cifre saranno in realtà raggiunte dall’Urss solo nel corso degli anni’50. Tutti pagarono duramente questo sforzo immane, ma soprattutto l’agricoltura che fu una delle principali fonti dell’accumulazione.

La questione contadina
L’esodo di milioni di persone dalle campagne verso le città e i cantieri non fu il solo salasso umano che i villaggi conobbero.
Un altro furono le deportazioni massicce. Le cifre parlano di 250 mila famiglie di Kulak deportate, il che significherebbe un milione di persone.
Una ormai famosa circolare segreta, firmata da Stalin e Molotov segnalava – per dire, è vero, che bisognava porvi fine – le deportazioni di massa che erano state praticate per tre anni e aggiungeva che nelle sole carceri si trovavano a metà del ’33 circa 800 mila arrestati.
In una sua lettera dal Don, resa nota tanti anni più tardi, lo scrittore Michail Aleksandrovic Solochov scrisse a Stalin che queste misure non erano singoli eccessi, ma un “metodo legalizzato” di cui erano vittime decine di migliaia di colcosiani” e che nella zona la “costruzione dei Kolcoz “era mortalmente colpita”.
Nella sua risposta Stalin riconobbe che si era arrivati in certi casi “sino al sadismo”, ma se la prese con gli “esimi agricoltori” difesi da Solochov e tuttavia colpevoli – diceva Stalin – di lasciare senza pane le città, gli operai e l’esercito e di condurre una “guerra silenziosa” contro il potere sovietico. Senza pane erano però a quel punto gli stessi contadini.

Il cesarismo staliniano
Il vero nucleo dirigente non coincide più nemmeno col politbjuro. Nel disegno di Stalin la grande offensiva doveva spazzare via tutto ciò che nell’Urss era rimasto capitalista o potenzialmente tale, dal contadino ricco al commerciante, dallo speculatore all’ingegnere di ricca scuola.
Lo scontro fra Stalin e Bucharin, ridotto alla sua essenza, contrapponeva all’idea di un avanzamento verso il socialismo con un’alleanza di forze quanto più ampia possibile la concezione di uno sfondamento mediante un fronte più ristretto e risoluto.
Molti furono gli arresti, non solo fra gli ingegneri, ma fra gli economisti e gli esperti non comunisti o perfino simpatizzanti che negli anni della Nep avevano svolto un lavoro di grande impegno nei diversi organismi sovietici.
Ovunque si vedono sabotatori. Tutte le colpe delle inefficienze erano “soggettive”.
Da quel momento Stalin incluse fra i suoi metodi di governo la pubblica ricerca di capri espiatori per le dure privazioni, gli sprechi, i pesanti contrasti di cui il paese soffriva.
La tendenza ad indicare in oscure macchinazioni o in degenerazioni personali l’origine di ogni male e di ogni difficoltà.
Fu questa, tra il ’30 e il ’31, la tela di fondo della prima serie dei grandi processi pubblici.
Oggi abbiamo ogni ragione di credere che i processi fossero fabbricati. Non poche testimonianze hanno rivelato i metodi di tortura fisica o di ricatto morale con cui le confessioni venivano strappate.
L’imputazione fu sempre la stessa: “cospirazione e tradimento con l’aiuto straniero”, “panico davanti alle difficoltà”, “spirito di capitolazione”.
La semplice difesa di determinate proposte veniva assimilata col reato politico. I processi contribuirono in tal modo a creare un clima di sospetto generalizzato che deformò tutta la vita pubblica sovietica.
Come massimo organo di repressione politica, la Gpu, la polizia erede della Ceka, conobbe una forte estensione dei suoi poteri. Non sappiamo di quanto crebbero i suoi effettivi. Certo aumentarono le sue competenze e le sue operazioni.
Da sola, praticamente senza controllo, essa organizzò i processi e le relative condanne, pubbliche o segrete che fossero.
Per i 50 anni di Stalin la Pravda esce in veste del tutto eccezionale: le sue 8 pagine erano dedicate soltanto a Stalin.
Le frasi usate: “timoniere del bolscevismo”, “il più importante teorico del partito”, “il migliore allievo di Lenin”, “il più eminente organizzatore della vittoria dell’Ottobre”. Nulla di simile era mai stato detto.
Tutte le riviste culturali e teoriche, fossero esse filosofiche o economiche, vengono sottoposte ad attacchi di estrema rozzezza.
Vengono attaccati persino gli storici più rinomati del partito, come Prokrovskij e Iaroslavskij. Sulla minuta di una sua lettera quest’ultimo annotava: “Il pensiero teorico è assiderato. Si ha paura di scrivere. E’ cosa assai pericolosa”.
La politica e il cesarismo staliniani si conciliavano male con il pensiero teorico bolscevico e il passato storico del partito dove non a torto Stalin vedeva l’humus di nuove opposizioni.
Il ’32 vede quella che può essere considerata l’unica mossa politica compiuta da Trockij dall’esilio nel quadro di un’attività che era rimasta prevalentemente agitatoria: dopo essere stato privato della cittadinanza sovietica, egli propone con una lettera aperta ai dirigenti del partito di togliere Stalin dal suo incarico come unica via d’uscita alla crisi e di riconciliazione nel partito.
La teoria del continuo inasprimento della lotta di classe via via che si avanza verso il socialismo nacque allora. Si delineò come sviluppo dell’altra tesi staliniana, secondo cui non vi erano più difficoltà oggettive per il progresso socialista del paese, ma solo difetti soggettivi.
Stalin liquida con un’autentica capriola dialettica intere pagine del pensiero di Marx e di Lenin:
“L’estinzione dello Stato non avverrà – scrive – attraverso l’indebolimento del potere statale, ma attraverso il suo rafforzamento massimo”.
In sede di analisi storiografica ci si è chiesto se Stalin pensasse già allora ad una massiccia repressione contro il partito.
Nasce il “culto” di Stalin. Quando nel marzo del’33 fu celebrato il cinquantesimo anniversario della morte di Marx, i giornali uscirono con la testata dominata da tre immagini di uguale grandezza: Marx, Lenin e Stalin.
Nel XVII congresso del ’34 l’esaltazione di Stalin assume le proporzioni di un rito. Egli veniva posto al di sopra del partito e di ogni suo organo statutario.
Il rituale del “culto” staliniano non era tuttavia indice di unanimità: nelle votazioni segrete per l’elezione del comitato centrale il nome di Stalin venne cancellato su 270 delle 1225 schede, più di qualsiasi altro candidato.

L’allarme fra i vecchi quadri leninisti
Emerge la personalità di Kirov, segretario del partito di Leningrado: la vecchia guardia ne vedeva di buon occhio l’ascesa sino a scorgere in lui una possibile alternativa a Stalin (R. Medvedev).
Il rapporto di Bucharin al congresso sulla poesia (Boffa a p.491).
L’assassinio di Kirov (nel dicembre del’34) apre una nuova fase, la più oscura, della dura storia dell’Urss negli anni’30.
La svolta nel VII congresso del Comintern, presenti delegazioni di 65 partiti comunisti: Dimitrov propone la liquidazione della teoria del socialfascismo.
Nel suo rapporto (L’offensiva del fascismo e i compiti dell’internazionale comunista nella lotta per l’unità della classe operaia contro il fascismo) egli riconobbe con coraggio che nel movimento comunista c’era stata “un’inammissibile sottovalutazione del pericolo fascista”. Introdusse quindi la sua relazione con un’analisi approfondita del fenomeno, visto non più come semplice “sostituzione di un governo borghese con un altro” ma – e qui egli riprendeva una definizione che si era fatta strada in precedenza nell’Internazionale – come “dittatura terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialistici del capitale finanziario”, quindi come mutamento della stessa “forma statale” del dominio di classe della borghesia.
Il fascismo aveva vinto in alcuni paese perché la classe operaia era divisa e nello stesso tempo isolata dai suoi “alleati naturali”, primi i contadini, e poi perché la socialdemocrazia era stata incapace di opporsi alla violenta offensiva borghese, mentre i soli comunisti non potevano essere abbastanza forti da condurre, senza i socialdemocratici, una lotta antifascista efficace.
Il fascismo – spiegava Dimitrov – poteva essere sconfitto; ma per quanto instabile e travagliato da contraddizioni interne, non sarebbe crollato da solo.
Dall’analisi discendevano dunque nuove indicazioni politiche per il movimento: fare innanzitutto il “fronte unico” della classe operaia, quindi un’alleanza con i partiti socialisti non in nome della “dittatura del proletariato” (senza cioè obbligare gli interlocutori ad accettare tutte le impostazioni comuniste, come si era fatto quando il solo punto di approdo del fronte unico era stato indicato nei soviet) ma per promuovere un comune impegno antifascista.
L’unità operaia doveva essere la base di un più largo “fronte popolare antifascista”, espressione di una vasta alleanza con gli strati di piccola borghesia urbana e rurale.
Molte posizioni politiche del movimento furono modificate. Non doveva esserci più disprezzo, ma difesa delle conquiste democratiche ottenute dai lavoratori in regime di democrazia borghese, anche se l’aspirazione restava la “democrazia sovietica”.
Non potevano inoltre esserci schemi unici per tutti i paesi, ogni partito dovendo operare in base a uno studio attento delle singole realtà concrete in cui era nato e si era formato.
Nel movimento doveva essere combattuto ogni spirito di setta. Nella stessa direzione di Dimitrov si mosse il rapporto presentato da Togliatti.
Stalin assistette ad alcune sedute del Comintern ma non vi prese la parola. Nei suoi scritti e discorsi successivi si cercherebbe invano un qualsiasi cenno di approvazione esplicita della nuova politica.
Questa suonava, del resto, come una sconfessione delle note tesi staliniane dal lui sostenute fra il ’28 e il ’33, secondo cui “fascismo e socialdemocrazia non sono antipodi, ma gemelli”.
L’occupazione tedesca della Renania (1935).
Francia e Inghilterra rifiutano la proposta di alleanza anti-tedesca dell’Urss.
Il successo dei fronti popolari in Francia e in Spagna.
La guerra civile spagnola. La politica di “non intervento” di Francia e Inghilterra che non decisero mai di ostacolare realmente l’intervento italo-tedesco.
L’aiuto dell’Urss alla Spagna repubblicana.
Le Brigate internazionali.
Il patto anti-Comintern del ’36 fra Germania e Giappone.
Francia e Germania non reagiscono (1938) neppure di fronte all’annessione dell’Austria da parte di Hitler e alla successiva invasione della Cecoslovacchia. Esse pensano che il nemico vero è la Russia sovietica e che lì finirà per attaccare la Germania nazista.
Maksim Maksimovic Litvinov (ministro degli esteri sovietico) alla Società delle nazioni ammonisce inutilmente: “I fucili capaci di sparare da una parte sola non sono ancora stati inventati”.
L’attacco del Giappone alla Cina (ancora inerzia delle potenze occidentali).
Cina: l’accordo fra Kuomindang di Chiang Kai-shek e comunisti.
Dall’assassinio di Kirov alla costituzione del ‘36
L’accusa a Stalin di esserne stato l’artefice (nel rapporto “segreto” di Nikita Chruscev al XX congresso).
Il depistaggio delle indagini verso gli oppositori politici.
L’accusa di terrorismo e l’inchiesta da chiudersi entro 10 giorni con condanne a morte decise in un processo senza difensori e a porte chiuse: fine di qualsiasi garanzia legale.
Neppure il politbjuro viene consultato: esso ratifica le decisioni due giorni dopo.
L’arresto e la condanna al carcere Di Zinov’ev e Kamenev.
L’ammissione (estorta) di una propria responsabilità morale: si accetta l’identificazione della semplice lotta politica col delitto; si spalancano le porte ad una concatenazione fatale.
Stalin promuove agli incarichi più importanti del partito uomini come Ezov, Berija, Jagoda, Balickij, che avevano sempre operato nella macchina repressiva della polizia politica.
Viene creata una serie di organismi di eccezione, “extragiudiziari”, cioè soggetti solo alla polizia, per tutte le cause penali di origine politica.
La Costituzione Buchariniana del ’36.
Il testo era di un grande interesse e fu accolto con molta curiosità anche fuori dell’Urss.
L’Urss era proclamata “ Stato socialista degli operai e dei contadini” Sua “base politica” erano “i soviet”; sua “base economica…il sistema socialista di economia e la proprietà sociale degli strumenti e dei mezzi di produzione”. Quest’ultima era rappresentata dalla “proprietà statale”, definita “di tutto il popolo” e dalla “proprietà cooperativo-colcosiana”. Il Soviet supremo era un’assemblea bicamerale, formata da un Soviet dell’Unione e da un Soviet delle nazionalità. Le elezioni non sarebbero più state palesi ma “segrete”. Né vi sarebbe stata più disparità fra operai e contadini. Il “potere legislativo” veniva attribuito esclusivamente al “Soviet supremo dell’Urss” e non, come in realtà avveniva, dalla segreteria del partito.
Nell’elenco delle prerogative del cittadino la Costituzione proclamava una serie di nuovi “diritti sociali”. Che non erano mai apparsi in nessun documento simile (Boffa, p.534).
Voleva essere un grande documento democratico e socialista. Le sue formulazioni risentivano tuttavia di un distacco totale dall’esperienza politica concreta.
Dei 30 membri che con Stalin erano stati inclusi nella commissione di redazione della nuova “legge fondamentale”, ben 20 sarebbero scomparsi di scena durante le repressioni dell’anno dopo e di mesi successivi: 17 arrestati e soppressi, uno suicida e due del tutto emarginati dalla vita pubblica.
Sino ad allora il “cesarismo” era rimasto un fenomeno legato al partito, alla sua vita interna e alla sua funzione preminente nella società. Adesso cambiava natura per diventare sempre più un rapporto diretto fra il “capo” e il paese, tale da scavalcare e sminuire il partito stesso.
La sospensione del reclutamento al partito e le espulsioni di massa.
L’epurazione prende un nuovo indirizzo: si diffonde la sensazione che vi sia ovunque un nemico onnipresente e nascosto.
Stalin: “Bisogna finirla con la bonomia opportunista derivante dall’errata supposizione che, nella misura in cui aumentano le nostre forze, il nemico diventi sempre più mansueto e innocuo…”.
Comincia la caccia al “trozchista”, cioè non solo ai superstiti seguaci di Trockij, ma a tutti i vecchi simpatizzanti di qualsiasi opposizione, poi anche a chi non li avesse attaccati con energia o non avesse denunciato la loro presenza nelle cellule del partito.
Gli accusati, spesso senza riuscire nemmeno a capire di che cosa li si incolpava, si sentivano per prima cosa intimare di ammettere i loro torti.

Il processo Zinov’ev-Kamenev
Si svolse nel massimo segreto e in condizioni tali da consentire ogni arbitrio: non solo il Comitato centrale, ma nemmeno il politbjuro ne furono informati.
L’accusa: avere costruito da l 1932 un “centro unificato trozchista-zinovievista che aveva predisposto l’uccisione di Stalin.
Non solo si videro i vecchi capi bolscevichi accusati di complotto controrivoluzionario: gli imputati erano rei-confessi; ammettevano di essere “traditori” che avevano finito col battersi contro il socialismo e per di più lo facevano impiegando gli stessi termini abietti con cui si sentivano accusare dal procuratore generale, l’ex menscevico Vysinskij (Boffa a p. 530).
Tutti i principali imputati vennero condannati a morte. La sentenza fu eseguita dopo qualche giorno.
La conclusione fu che “questi nemici” avevano potuto operare nel partito “sotto la maschera di comunisti” solo per colpa della “mancanza di vigilanza bolscevica” nelle singole organizzazioni: “Qualità imprescindibile di ogni bolscevico deve essere la capacità di riconoscere i nemici del partito, per quanto bene essi siano mascherati”.
Inizia così la massiccia repressione che avrebbe devastato in primo luogo il partito stesso.
Il grande sforzo per l’industrializzazione e il compromesso nelle campagne
Per il volume globale della produzione industriale, l’Urss divenne nel ’37 la seconda potenza del mondo.
Col terzo piano quinquennale fu annunciato per la prima volta quello che veniva definito il “compito economico fondamentale dell’Urss”: “raggiungere e superare anche dal punto di vista dell’economia i paesi capitalistici più sviluppati dell’Europa e gli Stati Uniti d’America”.
Lo stachanovismo.
Lo sforzo militare e il peso dell’esercito.
La terra resta di proprietà statale ma viene affidata ai kolchoz in uso perpetuo.
I bassi prezzi agricoli furono il “tributo” pagato dalle campagne all’industrializzazione sovietica, strumento di una “redistribuzione del reddito nazionale a vantaggio dell’industria”: un quintale di farina bianca era in vendita alla popolazione a 216 rubli; mentre un quintale di frumento veniva pagato al kolchoz 10,10 rubli.

Il terrore di massa contro il partito
Passano sotto la scure i bolscevichi della vecchia guardia: Pjatakov, Radek, Sokol’nikov, Serebrjacov.
L’accusa: avere cospirato, dietro ordine di Trockij, con le potenze nemiche Germania e Giappone.
Ancora una volta l’accusa si reggeva sulle sole confessioni degli imputati, pronunciate col solito linguaggio autodistruttivo. Deposizioni contro di loro venivano contemporaneamente estorte nelle carceri ad altri arrestati, neanche comparsi di fronte al tribunale.
Tomskij, prevedendo il peggio, si era nel frattempo suicidato. Analogo gesto aveva compiuto Ordzonikidze.
Per Stalin occorreva “riconoscere i lupi sotto la pelle dell’agnello”, i sabotatori erano “per la maggior parte gente di partito, con la tessera in tasca”. Essi andavano “estirpati e distrutti senza pietà… sotto qualsiasi bandiera mascherati, trozchista o buchariniana, come nemici della classe operaia, traditori della patria”.
Stalin pretese che il “sabotatore” non sabota sempre: ogni tanto fa anche buone cose. Egli formulò la più drastica enunciazione della sua teoria sul continuo aggravarsi della lotta di classe:
“Quanto più andremo avanti, quanti più successi avremo, tanto più i residui delle vecchie classi sfruttatrici distrutte diverranno feroci, tanto più ricorreranno a forme di lotta più acute, tanto più cercheranno di colpire lo Stato sovietico, tanto più ricorreranno ai mezzi di lotta più disperati come agli ultimi mezzi di chi è condannato a morte”.
L’appello di Stalin alle successive leve di “promossi” perché si facessero sotto a scalzare tutto lo strato che aveva diretto il partito in precedenza: “promuovere funzionari nuovi, capaci e devoti, sono due aspetti di uno stesso dovere”.
Stalin: “Vi sono nel partito… 3-4 mila dirigenti superiori: sono, direi, i generali del nostro partito: Poi vengono 30-40 mila dirigenti intermedi: sono gli ufficiali. Infine vi sono circa 100-150 mila dirigenti subalterni: sono, per così dire, i sottoufficiali del nostro partito”.
Stalin propose che per ognuno, cioè per ogni segretario, dalla cellula al comitato regionale, fossero scelti due sostituti, capaci di prendere il loro posto. Era il segnale che doveva mettere in moto una macchina infernale.
Le tesi di Stalin, confermate da Molotov e Zdanov, fornivano una giustificazione teorica non per un rinnovamento democratico dei quadri dirigenti, ma per qualcosa di diametralmente opposto.
Di quanto accadde in quell’assemblea di morituri che fu il plenum del febbraio-marzo ’37 non si sa molto. Un solo discorso di opposizione risulta con certezza: fu pronunciato da Postysev (che era con Kosior uno dei due capi del partito ucraino) il quale sostenne di non poter credere che militanti rimasti fedeli al partito nei terribili anni dell’industrializzazione e della collettivizzazione si fossero schierati più tardi con i suoi nemici, diventando spie e sabotatori.

Il “terrore di massa”
La polizia dell’Nkvd fu lanciata contro il partito nel suo insieme. I suoi organi furono autorizzati ufficialmente a fare uso delle torture. Le prigioni cominciarono a riempirsi all’inverosimile.
Furono interamente liquidati gli obkomy, i comitati regionali del partito. Ad uno ad uno furono arrestati e fucilati tutti i segretari di ferro staliniani.
I capi delle organizzazioni sabotatrici venivano indicati, senza alcun motivo accertato, nei primi segretari dei comitati regionali o dei Comitati centrali delle Repubbliche.
Tutte queste accuse, come il semplice buon senso suggerisce, risultarono molti anni dopo fabbricate di sana pianta.
Tutti erano “nemici del popolo”: i più alti di grado furono fucilati. Furono arrestati gli interi comitati di partito e gli interi comitati esecutivi dei soviet, ma in più di un caso successe che gli stessi comitati nominati al loro posto (o almeno i loro capi) finissero a loro volta in prigione.
Su 136 segretari dei rajcomy della città e della regione di Mosca, solo 7 rimasero al loro posto, mentre gli altri in genere sparirono: tutti i vecchi collaboratori di Kirov furono annientati. Ricevere in quegli anni una nomina a Leningrado era già “fare un passo sull’orlo dell’abisso”.
Nel maggio del ’37 si tenne a Tbilissi un congresso del partito georgiano: dei suoi 644 delegati 425, cioè i due terzi, furono nei mesi successivi “arrestati, deportati, fucilati”.
Qualcosa di analogo accadde in Armenia e Azerbajdzan. In Ucraina e Bielorussia quasi metà degli iscritti al partito erano stati espulsi nelle successive epurazioni. Ma colpi ugualmente terribili furono portati in Uzbekistan, Kazachstan, Tadgikistan, Turkmenia: i dirigenti furono ovunque fucilati.
Gli apparati centrali non sfuggirono alla stessa sorte, a partire da Jacovlev, cioè colui che come commissario dell’agricoltura era stato fra i maggiori artefici della collettivizzazione.
Gli stati maggiori dei commissariati industriali furono eliminati quasi per intero.
Kaganovic imperversò nei trasporti: “Non posso nominare una sola rete, una sola ferrovia – disse nel marzo del ’37 – dove non vi sia sabotaggio trozchista-giapponese”.
Tra il maggio e il giugno ’37 esplose l’attacco all’esercito, all’Armata rossa, per via di una vecchia ostilità dei soldati nei confronti della polizia politica.
Un gruppo dei più celebri comandanti “rossi” (Tuchacevskij, Uborevic, Jakir, Ejdeman, Kork, Fel’dman, Primakov, Putna) erano stati arrestati, giudicati colpevoli di tradimento e fucilati. Stessa sorte toccò al maresciallo Bljucher, il prestigioso comandante dell’armata di medio oriente che aveva sconfitto l’aggressione giapponese.
Furono inoltre fucilati: il capo di stato maggiore, maresciallo Egorov, il comandante della marina, Orlov, quello dell’aviazione, Alksnis e quello dei servizi segreti, Berzin.
Scomparvero tre dei cinque marescialli dell’Urss, tre dei quattro comandanti d’armata di primo rango, tutti i 12 comandanti d’armata di primo rango, 60 dei 67 comandanti di corpo d’armata, 133 dei 199 comandanti di divisione, 221 su 397 comandanti di brigata, metà dei comandanti di reggimento, tutti i 10 primi ammiragli, 9 dei 15 secondi ammiragli, tutti i 17 commissari di armata e molte migliaia di altri ufficiali.
Neppure una guerra ha mai provocato una simile decapitazione in un esercito.
La loro “riabilitazione” nell’Urss è stata dopo la morte di Stalin completa e senza riserve.
Nelle repressioni scomparvero tutti coloro che in qualsiasi momento della storia del partito avevano avuto un atteggiamento critico.
Ogni legalità di partito essendo stata nel frattempo travolta, l’arresto e la fucilazione non furono neppure sanzionati dal comitato centrale, ma decretati con una decisione firmata solo da alcuni dirigenti staliniani.
Del resto, lo stesso Comitato centrale in pratica non esisteva più: 110 dei suoi 139 membri effettivi e candidati, eletti dal XVII congresso, perirono nelle repressioni, così come 1108 dei 1966 delegati di quello stesso congresso.
Distrutto fu il nucleo del partito che aveva aderito alla milizia bolscevica in epoca prerivoluzionaria o durante la guerra civile.
Se si prendono i soli 80 nomi di coloro che furono membri del Comitato centrale con Lenin fra il ’17 e il ’23, 61 erano ancora in vita nel ’37: di loro 46 perirono nelle repressioni. Dei 15 rimasti vivi solo 8 ricoprivano incarichi importanti, gli altri essendo del tutto emarginati, spesso dopo essere stati colpiti nelle persone a loro più vicine.
Distruggere un intero strato del partito, che aveva alle spalle tanta storia e tanta influenza, era però possibile solo con un terrore che gravasse sull’intera popolazione e paralizzasse ogni capacità di reazione.
Nel ’38 fu decretato dal Comintern, per volontà di Stalin, lo scioglimento di un intero partito comunista, quello polacco, e tutta la sua direzione fu arrestata.
Furono arrestati esponenti di primo piano dell’Internazionale, quali i sovietici Pjatnickij e Knorin, l’ungherese Bela Kun, il tedesco Eberlein, i bulgari Tanev e Popov, lo svizzero Friz Platten che aveva organizzato nel ’17 il ritorno di Lenin in Russia col famoso “vagone piombato”.
Per finire con l’arresto di molti dei reduci dalla guerra di Spagna, fra i quali Antonov-Ovseenko, il conquistatore del Palazzo d’inverno dell’Ottobre’17 che morì con grande dignità davanti al plotone di esecuzione.
Il terrore finì per essere un meccanismo che si alimentava da solo: bastava un qualsiasi atto di protesta, una barzelletta, la parentela con un condannato, perfino qualche parola scanzonata o scettica per finire in carcere.
Le repressioni massicce durarono circa due anni. Stalin era solito convalidare con un tratto di penna intere liste di condannati a morte: sono stati citati 383 elenchi di questo tipo per 44 mila nomi.
L’ultimo processo: quello del marzo’38 a Bucharin e Rikov, messi a morte con l’accusa di avere progettato l’uccisione di Lenin.
Alla fine fu arrestato e fucilato anche Ezov, primo esecutore materiale del terrore. Divenuto ingombrante, fu buttato via: l’operazione servì a Stalin per lasciar credere che fosse stato lui il solo colpevole di quei due anni terribili e dei loro “eccessi”. Con Ezov scomparve tutta una serie di inquisitori e di capi della polizia che avevano operato ferocemente ai suoi ordini.
Quante furono le vittime? Un’autorità comunista jugoslava ha fatto una cifra di tre milioni. Secondo i calcoli “prudenti” dello storico Medvedev vi furono almeno 400-500 mila fucilati e dai 4 ai 5 milioni di arresti.
Merita chiedersi come sia stato possibile tutto ciò e perché il partito non sia stato in grado di resistere a Stalin:
Il partito che a Stalin si era affidato nel’29 non era affatto preparato a far fronte alla brutale risolutezza del colpo staliniano. Di qui lo smarrimento totale di tante vittime incapaci di comprendere gli avvenimenti e violentemente sradicate dall’unico suolo vitale che fosse loro familiare: come tanti altri sovietici, molte vittime rimasero convinte che la responsabilità della loro persecuzione non fosse di Stalin;
Lo strato dirigente del partito era nella seconda metà degli anni ’30 politicamente troppo debole per opporre una resistenza vittoriosa.
Se Stalin si servì principalmente della polizia ezoviana per portare i suoi colpi, egli riuscì anche a creare un movimento cieco di opinione pubblica, dove vecchi rancori e nuovi furori trovarono uno sfogo irrazionale.
Quella di Stalin non fu un’improvvisazione paranoica, ma una spietata scelta politica. Egli riuscì a presentarsi, nonostante o persino mediante le repressioni come difensore del popolo, garante delle faticose conquiste raggiunte, ugualmente vigilante contro i tanti nemici esterni e i non pochi nemici interni. Soppresse così ogni condizionamento al proprio potere personale. Fu – dice una definizione ufficiale impiegata a Mosca nel 1962 – “abuso di potere, arbitrio e azione criminale”. E’ una formula che non a torto equivale a quella di colpo di Stato.

Lo stalinismo
Per la sua condotta nel ’37 e nel ’38, Stalin suggerì un paragone storico, quando elogiò lo spietato sterminio dei bojari da parte di Ivan IV, considerato come necessaria premessa per l’affermazione dello Stato russo centralizzato.
Cominciò negli anni pre-bellici l’idealizzazione della figura dello zar “terribile” che, accanto a quella di Pietro il Grande, divenne una costante della storiografia staliniana.
Soppressa qualsiasi resistenza, palese o sotterranea, dopo il ’38 il potere di Stalin poteva dirsi illimitato. Era cioè caduto ogni ostacolo per quel rapporto diretto fra capo e popolo in cui egli aveva via via cercato uno strumento contro lo strato dirigente del partito e nello stesso tempo un mito capace di cicatrizzare le lacerazioni sociali dei primi anni ’30.
Scrive Roy Medvedev: “C’era il popolo e c’era il suo capo…, il quale sapeva cosa occorreva al popolo, per quale strada il popolo doveva andare e che cosa doveva compiere lungo questa via. Anche i suoi più vicini compagni d’arme erano visti da lui come intermediari, il cui compito principale consisteva nello spiegare senza posa al partito e al popolo ciò che lui, Stalin, diceva e nel realizzare le sue indicazioni”.
Nel ’39, al XVIII congresso, entrano nel politbjuro Molotov, Kaganovic, Andreev, Vorosilov, Zdanov, Kalinin, Mikojan, Chruscev, Berija e Svernik. Tutti sapevano che negli archivi del Nkvd vi erano per ogni evenienza fascicoli di accuse pronti sul loro conto.
Gli arresti e le decimazioni degli anni ’37-’38 avevano causato all’Urss un “danno immenso”.
Cruscev: “La nostra marcia verso il socialismo e verso la preparazione difensiva del paese avrebbero avuto maggiore successo se i quadri del partito non avessero subito perdite così gravi a seguito delle infondate e ingiustificate repressioni di massa” che si erano abbattute sul paese come una pestilenza.
Queste constatazioni distruggono l’ipotesi – più tardi avanzata in forme diverse – secondo cui le repressioni staliniane avrebbero avuto lo scopo di preparare il paese al conflitto imminente, rendendolo più compatto. In realtà esse indebolirono l’Urss in una misura che rischiò di esserle fatale.
Un solo esempio per tutti. Andrej Tupolev, il grande costruttore di aerei, che già allora era il massimo nome della scienza aeronautica sovietica, si trovava negli anni pre-bellici sotto arresto, e in detenzione progettava gli apparecchi con cui l’Urss avrebbe poi tenuto testa ai nazisti.
Riprende il tesseramento di massa e le epurazioni si fanno più selezionate.
La polizia politica continua ad esercitare un potere enorme. Questo non significa che su di essa non vi fosse nessun controllo, ma il solo rimasto era il controllo personale di Stalin.
Il caso di Berija. Le sue origini bolsceviche erano più che dubbie. Tutte le testimonianze raccolte più tardi confermano che il suo comportamento all’epoca della guerra era stato nel migliore dei casi quello di un doppiogiochista. Con gli anni egli si sarebbe dimostrato uno dei più freddi e spietati ministri di polizia mai conosciuti.

Il “breve corso” di storia del PC(b)
Lo scopo: Trasformare il pensiero di Marx e di Lenin in formule sintetiche che avessero i crismi di una dottrina ufficiale.
Il contenuto era un rifacimento della storia del partito che aveva ben scarsi rapporti col suo reale passato.
Le pretese teoriche: l’intera teoria di Marx era riassunta in un famoso sottocapitolo di poche pagine, dal titolo Il materialismo dialettico e il materialismo storico, scritto, si disse, di proprio pugno da Stalin. Ne risultava una sintesi catechistica, priva di qualsiasi valore scientifico.
Così il pensiero di Lenin: del tutto trascurato per tutta la sua evoluzione dall’ottobre in poi.
La concezione generale del volume era l’idea dei due capi del bolscevismo e della rivoluzione: Lenin e Stalin. La stessa data di nascita del partito venne indicata nel 1912, quando Stalin era stato cooptato per la prima volta nel Comitato centrale.
Le vicende della guerra civile venivano deformate perché risultasse che il ruolo determinante per la vittoria era stato di Stalin.
A difendere – sia pure da un proprio angolo visuale, ma sempre con scrupolosa fedeltà a confronto delle deformazioni staliniane – la storia del vecchio bolscevismo rimase Trockij nel suo travagliato esilio: egli smontò il meccanismo delle accuse e si dedicò in modo sistematico alla denuncia della contraffazione staliniana della storia.
I servizi sovietici gli davano la caccia e un loro sicario, Ramon Mercader, lo ferì mortalmente in Messico il 20 agosto 1940.
Il “Breve corso” rappresentò l’interpretazione ufficiale, controllata dal Comitato centrale, delle principali questioni di storia del partito e del marxismo-leninismo, “tale da non tollerare nessuna interpretazione arbitraria”: una vera proclamazione del dogma che fece da sbarramento tra i ricercatori impegnati ad un vero approccio alle opere di Marx, Engels e Lenin.
Ogni ricerca indipendente fu giudicata fuori luogo. Compito essenziale dello studioso era in pratica l’esegesi e il corretto commento delle opere di Stalin.
Persino l’eccellente apparato critico della terza edizione delle opere di Lenin, ancora oggi assai utile per chi voglia studiare la storia sovietica, venne giudicato “un insieme di errori politici”.
L’analisi di ogni diversa teoria fu scoraggiata. Stalin: “Dapprima occorre rafforzarsi nella fede, poi smascherare l’eresia”.
La censura sulla stampa si era progressivamente rafforzata, in modo che nessun dato venisse pubblicato, né fosse annunciato in pubblico, senza una speciale autorizzazione. Si addusse per questo un motivo di segretezza: non fornire al nemico esterno alcuna informazione che potesse essergli utile.
Al XVIII congresso, dove ogni ombra di dibattito era ormai assente, al nome di Stalin non si battevano più soltanto le mani, ma l’assemblea si alzava in piedi per applaudire.
Le cinghie di trasmissione: i sindacati, il Konsomol, i soviet, ma anche la stampa, il cinema, la letteratura, le arti, tutte attività che Zdanov qualificò solo come “potenti strumenti di propaganda”.
La questione dell’estinzione dello Stato.
Poiché Stalin stava facendo l’esatto opposto, egli decise di prendere il toro per le corna e al XVII congresso disse apertamente che quanto Engels e Lenin avevano sostenuto sull’argomento non poteva avere attinenza con lo Stato sovietico. Le sue parole furono riprese da diversi oratori che le definirono uno sviluppo “geniale” del pensiero marxista.
Da allora in poi tutte le edizioni di Stato e rivoluzione vennero pubblicate con l’obbligatoria aggiunta del testo correttivo staliniano.

Alle soglie del secondo conflitto mondiale: l’atteggiamento di Francia e Inghilterra; il patto di Monaco; il patto di non aggressione fra Urss e Germania.
L’aggressione di Hitler all’Urss nel giugno del ’41 e la grave impreparazione della Russia sovietica alla guerra; le pesanti responsabilità di Stalin nei primi due anni del conflitto e le perdite immani di vite umane.
La vittoria e le democrazie popolari.

Gli ultimi 5 anni della vita di Stalin
Gli ultimi 5 anni della vita di Stalin furono – per usare un’espressione di Lucio Magri – “anche i peggiori”.
Cosa impediva ad un paese che aveva avuto la forza di tentare “la rivoluzione in un paese solo”, che aveva respinto la crociata dell’Occidente contro il primo Stato operaio della storia, che era stato decisivo nella sconfitta di Hitler, di sperimentare, una volta divenuto una potenza mondiale, anche una modesta riforma di se stesso?
Né vale obiettare che, in partenza, questa strada era ostruita dalla superiorità militare americana, basata sul possesso della bomba atomica, perché anzi l’iniziativa politica e sociale avrebbe ancor meglio impedito all’avversario una guerra atomica preventiva e offerto con più sicurezza il tempo necessario a recuperare un equilibrio anche in quel campo, come infatti avvenne. I cervelli per farlo c’erano.
Stalin scelse invece una strada del tutto diversa.
L’idea di Stalin era che ad ogni avanzata del socialismo doveva corrispondere una lotta di classe più aspra e polarizzata; che il capitalismo fosse ormai in una crisi irreversibile e che avrebbe prodotto una guerra interimperialista.
Il consolidamento dell’unità delle proprie forze, campo contro campo, sul piano politico e ideologico, diventava la priorità assoluta.
La ricerca di alleanze, l’autonomia dei partiti comunisti, non potevano e non dovevano perciò superare i confini di questa priorità, che diveniva un vero e proprio dogma di fede.
Dunque, proprio nel momento di una grande vittoria, del più diffuso consenso, in un contesto internazionale non del tutto lacerato, in una società impegnata con spontanea vitalità nella propria ricostruzione, Stalin scatenò una recrudescenza della repressione.
L’”affare di Leningrado”, cioè l’eliminazione sommaria del gruppo dirigente della più grande ed eroica resistenza di tutta la guerra, coinvolse alla fine il maggior cervello dell’economia sovietica e il più fido collaboratore di Stalin in quel campo, Nikolaij Voznesenskij.
Non pochi reduci dei campi di prigionia tedeschi, o garibaldini in Spagna poi confluiti nella resistenza di altri paesi, finirono in Siberia per il sospetto che avessero disertato o si fossero piegati al nemico mentre rischiavano la pelle nel combatterlo.
Poi, via via, i medici accusati di complottare per uccidere i dirigenti politici che stavano curando, fino alla persecuzione dell’antica associazione ebraica, il Bund, in origine fiancheggiatrice della rivoluzione bolscevica e ora, mentre si riconosceva lo Stato di Israele, accusata di sionismo.
Quella stretta crudele e inutile creava il clima che avrebbe favorito la svolta politica del settembre ’47 e l’avrebbe segnata.
Mi riferisco alla creazione del Cominform (incontro di Szklarska Poreba), che non era la replica del Comintern, anzitutto perché a dargli vita furono chiamati solo alcuni dei partiti comunisti, quelli ritenuti più fedeli o quelli destinati a diventarne gli imputati (italiani e francesi).
Protagonista (operativo) delle epurazioni che ne seguirono fu Zdanov.
La nuova linea è così riassumibile: la divisione del mondo in due campi, fino ad allora presentata come un obiettivo degli avversari e da contrastarsi, veniva ora considerata un fatto compiuto cui adeguarsi ed anzi da usare: o di qua o di là, non potevano esserci forze oscillanti.
L’Unione Sovietica rappresentava non solo la guida politica naturale, ma il modello compiuto da imitare, senza deroga alcuna.
Il capitalismo stava già entrando in una nuova crisi economica e la guerra fredda sarebbe evoluta in guerra interimperialista.
Non aveva quindi più senso cincischiare intorno al concetto di “democrazia progressiva”.
Anche la cultura in tutti i suoi settori (scienza, letteratura, musica) doveva assumere un esplicito punto di vista politico, evitando qualsiasi confronto con le culture occidentali, compreso il marxismo non ortodosso e le arti d’avanguardia “degenerate”.
Primo a cadere sotto la scomunica e a subire un vero e proprio tentativo di rovesciamento fu, nel ’48, Josip Broz Tito, sino ad allora il più solido e forte dei partner dell’Urss.
Tutte le democrazie popolari sorte dopo la fine della seconda guerra mondiale dovevano per Stalin trasformarsi pienamente in società socialiste, il pluripartitismo doveva diventare, con le buone o con le cattive, solo apparente, l’economia essere totalmente statalizzata.
L’operazione viene sostenuta attraverso l’onda dei processi inventati e delle condanne (talvolta a morte) di titoisti al vertice dei vari partiti comunisti: l’ungherese Laszlo Rajk, il bulgaro Traicho Kostov, il polacco Wladyslaw Gomulka, lo Jugoslavo Janos Kadar, i Cechi Vladimir Clementis e Rudolf Slansky.
Credo che la “normalizzazione” brutale dell’Europa orientale sia stato il prezzo più grave pagato alla svolta del Cominform, il favore più grande fatto ai fautori della guerra fredda, quello che più a lungo produsse la spirale repressione-rivolta e anche quello che ebbe la maggiore influenza, ostacolando lo sviluppo o producendo un regresso nelle idee e nelle forme organizzative dei partiti comunisti.
La morte di Stalin nel marzo del ‘53
Nikita Chruscev segretario generale.
Il nuovo gruppo dirigente e l’emarginazione dei “vecchi” (Molotov, Kaganovic, Vorosilov), l’eliminazione di Berija, lo smantellamento e l’epurazione dell’onnipotente polizia segreta; Zukov torna a capo dell’esercito.

Il “disgelo”
In economia: concessione ai contadini della possibilità di produrre e vendere ciò che volevano nel piccolo pezzo di terra a loro privatamente assegnato; trasferimento alle cooperative dei mezzi meccanici di proprietà statale; affermazione dell’utilità della presenza di un settore affidato al mercato.
Ancora: una riforma della scuola che determinò una formidabile crescita dell’accesso all’istruzione; una seconda campagna di alfabetizzazione ai livelli superiori.
E poi: un aumento – moderato ma costante -del salario reale, un miglioramento generalizzato della copertura sanitaria, un aumento delle pensioni.
In politica estera: la nuova impostazione parla di evitabilità della guerra, di possibilità di diverse vie al socialismo, anche pacifiche.
L’autocritica sulla scomunica di Tito. Dirà Chruscev: “Fu un grande errore”.
La conferenza di Bandung, per iniziativa di Zhou Enlai, Sukarno, Nehru, Nasser, presenti 28 fra Stati e partiti: prende forma il “campo dei paesi non allineati”.
Il XX congresso e il “rapporto segreto”. La “destalinizzazione”.
Rapporto segreto…che segreto non fu per niente in quanto fu subito letto e diffuso in assemblee di tutti gli iscritti aperte agli altri cittadini, venne inviato agli altri partiti comunisti liberi di usarlo e, alla fine, pubblicato sui giornali americani, su Le monde e L’Unità.
Nel rapporto viene denunciata la dimensione di massa dell’uso del terrore sotto Stalin, l’assenza di criteri nell’esercitarlo, la prevalenza fra le vittime di comunisti, anzi di comunisti di comprovata fedeltà.
La parola usata per definire tutto ciò fu “comportamento criminale e paranoico”, messo in moto e alimentato da un folle “culto della personalità” e da un’inaudita quanto indiscutibile concentrazione del potere nelle mani di un uomo solo.
Ma la critica dello stalinismo, pur così dettagliata e drastica, nulla diceva né della trasformazione del regime interno del partito, né della forzatura nella collettivizzazione della terra, né dell’errore compiuto con la teoria del socialfascismo. Insomma si ometteva tutto ciò che era all’origine dello stalinismo.
Tutto veniva risolto nella personale responsabilità di un uomo solo.
Rileggendo quel XX congresso, la prospettiva che si proponeva e le scelte concrete che Chruscev compiva, anche dopo essersi liberato dei suoi oppositori – già allora si poteva intravedere, e oggi è assolutamente chiaro – che vi mancava l’idea di una riforma complessiva della società e dello Stato, perché non toccava né la questione della democrazia politica né quella della statalizzazione totale e centralizzata dell’economia.
Rimane intatta la persistenza del soffocante intreccio fra stato e partito, il loro potere diretto e assoluto sull’economia e nella società e il carattere piramidale della loro struttura.
I confini che la legge segnava tra legalità e illegalità non si spostavano di molto, gli spazi di libertà di stampa, di parola, e le possibilità reali di influire sulle decisioni restavano ristretti, o concessi di volta in volta bizzarramente dall’alto.
In secondo luogo, la crisi dell’ideologia ufficiale, il marxismo-leninismo, non a caso appaltato a Mikhail Suslov che ne diventava il ferreo custode, si trasformava via via in un semplice catechismo, demarcazione rispetto ad ogni eresia, ostacolo alla ricerca degli intellettuali: un guscio vuoto.
Dall’altro lato, a questo vuoto suppliva un’idea che ispirava Chruscev e divenne sempre più esplicita, l’idea cioè che la competizione fra socialismo e capitalismo si risolvesse e si riducesse a una gara nei risultati economici: il socialismo sarebbe finalmente compiuto e al comunismo verrebbero aperte le porte quando l’Urss avesse raggiunto e superato i livelli produttivi degli Stati Uniti. Un traguardo improbabile, anche se molti in Occidente al momento lo presero sul serio, e che, soprattutto, toglieva al marxismo la sua forza motrice, cioè la fiducia in una società qualitativamente diversa.
Nella versione chrusceviana nascevano le premesse della futura glaciazione brezneviana, cioè della sostituzione, tra le masse, dell’ipersoggettivismo staliniano con l’apatia politica e ideale e, tra i quadri, del timore delle epurazioni con il cinismo burocratico.
La parabola del chruscevismo, dai successi iniziali al defenestramento quasi silenzioso nel ’64, era dunque scritta nelle sue premesse.
Erano rimasti intatti i tratti che avevano segnato lo Stato sovietico: il partito è lo Stato e lo Stato è il partito Nessuna “socializzazione” dei mezzi di produzione. L’operaio sovietico non concorre in nessun modo a stabilire la destinazione del surplus di valore estratto dal lavoro. I soviet restano un’emanazione del partito, così i sindacati

Nessuna socializzazione del potere
Con Breznev si ha il ritorno alla rigida pianificazione centralizzata e – siamo negli anni Settanta – l’Urss conosce un tasso di sviluppo rispettabile, comunque superiore a quello dei paesi occidentali.
Ma già quello sviluppo era malato: restava come sempre concentrato sull’industria pesante e su quella militare, senza curarsi molto della loro produttività; nuovi settori industriali innovativi (chimica, petrolchimica, elettronica, per i quali esistevano materie prime abbondanti, raffinate competenze scientifiche, tecnici capaci) erano trascurati; il sistemma dei prezzi restava arbitrario; l’industria leggera di beni di consumo di massa produceva beni di cattiva qualità.
La pianificazione centralizzata aveva ottenuto risultati straordinari quando si trattava di costruire ed estendere le basi dell’industrializzazione o di rispondere a bisogni essenziali, non poteva però più funzionare quando l’economia era diventata complessa e i bisogni, individuali e collettivi, potevano essere guidati ma non imposti.
Tutto ciò non poteva più funzionare quando il ricordo della rivoluzione era ormai lontano, il pericolo di guerra diminuito e anzi i gruppi dirigenti collaboravano a spoliticizzare le masse per assicurare la stabilità del potere.
Si raggiungeva così un perverso compromesso tra disciplina politica e apatia sociale.
Una tale impasse del sistema economico si trasferiva immediatamente sul terreno geopolitico. Perché ormai il ciclo delle lotte di liberazione nazionale si stava concludendo e i nuovi Stati, che ne erano risultati, avevano bisogno non solo di un sistema militare, o di armamenti, ma di un sostegno tecnico, organizzativo, anche ideale, per sottrarsi alla lusinga e agli interessi che il neocolonialismo offriva loro attraverso la mediazione di una borghesia “compradora” già preesistente o reclutata all’interno degli stessi movimenti di liberazione.
Credo abbia un discreto fondamento la tesi secondo la quale “Bresnev fu il vero affossatore della rivoluzione russa”, proprio nel momento in cui le si offrivano altre strade da percorrere.

Da Jurij Anropov a Michail Gorbacev
Dopo la morte di Bresnev diventa segretario generale Jurij Anropov. Ciò che appariva a prima vista e faceva pensare ad una successione in perfetta continuità era il fatto che egli fosse e da tempo il capo del Kgb e in quanto tale poteva segnalare le premesse di una svolta autoritaria. E invece accadde il contrario.
Sarebbe interessante – ma al momento impossibile – potere ricostruire la sua biografia per spiegarlo.
Quel che è certo è che fu lui – nel breve tempo in cui esercitò il potere – ad iniziare, con un coraggio inusitato quanto imprevedibile, una svolta. Lo testimoniano alcune scelte immediate.
In politica estera: con la proposta di smantellamento bilaterale dei missili di teatro in Europa o quella di un governo di unità nazionale in Afghanistan, accompagnato dal ritiro di tutte le forze armate straniere. Oppure in politica interna: la scelta di Gorbacev, giovane dirigente di secondo piano, come suo braccio destro nella prospettiva di succedergli.
Ma se si vuole cogliere la radicalità e il senso concreto delle intenzioni di Anropov è utile leggere un ampio scritto uscito in occasione del centenario di Carl Marx.
Anzitutto perché, per la prima volta, dal vertice massimo veniva presentata al popolo un’analisi veritiera della situazione, traendo le somme del passato e un impegno per il futuro.
L’analisi di Andropov era cruda. Il socialismo in Urss – scriveva – non era affatto realizzato:
“Nonostante la socializzazione dei mezzi di produzione i lavoratori non sono i veri padroni della proprietà statale. Essi avevano ottenuto di essere padroni, ma non lo sono mai diventati. Chi sono allorai i padroni in Urss? Tutti coloro che, avendo una concezione privatistica camuffata, si rifiutano di trasformare il mio in nostro e desiderano vivere alle spalle degli altri, alle spalle della società”.
E’ difficile immaginare una critica più aspra al ceto burocratico e parassitario, al corporativismo avido di privilegi, all’economia sommersa che profittava dell’inefficienza pubblica per acquisire profitti immeritati. L’impegno che ne derivava, rivolto soprattutto alle masse, era a sua volta tutt’altro che demagogico:
“Per uscire da una stagnazione economica occorre uno sviluppo non solo quantitativo ma qualitativo, che migliori la qualità del lavoro e offra ai consumatori ciò di cui hanno realmente bisogno. Perciò occorre mettere in discussione non la pianificazione in sé, ma una pianificazione fondata sul comando amministrativo, indifferente allo sviluppo tecnologico, alla qualità dei beni prodotti e incapace di valutare i risultati degli investimenti. Basta con la ‘decretazione comunista’ sulla quale le direzioni aziendali costruiscono le loro carriere, distribuendone parte ai loro diretti dipendenti”.
Erano solo spunti, ma mostravano la volontà di riaffermare l’idealità socialista proprio nel momento in cui egli criticava una sua applicazione deviata, e la volontà di restituire alla lotta di classe un ruolo centrale.
La malattia e la morte non gli permisero di fare di più e la successiva elezione di Konstantin Chernenko mostrò quanto fosse forte la resistenza di chi difendeva lo staus quo.
Nel frattempo la stagnazione economica perdurava, la gerontocrazia divenne per tutti insopportabile: la candidatura di Michail Gorbacev alla guida del Pcus divenne uno sbocco necessario.
Il primo obiettivo che Gorbacev si propose fu quello di liberare la società e il partito da quella gabbia di divieti, di conformismo, di omertà che era cresciuta nel ventennio brezneviano e aveva messo basi profonde in un gigantesco apparato burocratico (16 milioni di persone).
Gorbacev operò concedendo e stimolando la libertà di parola e di stampa.
In pochi mesi vi fu l’esplosione di un dibattito fra gli intellettuali in ogni campo, la moltiplicazione spontanea di nuovi organi di stampa critici, premiati da vendite straordinarie, la facoltà per la televisione di dire il vero e a volte di trasmettere in diretta dibattiti vivaci nel vertice del partito.
Era una vera riforma strutturale, premessa di ogni altra.
Le masse ne erano interessate, ma anche diffidenti. A Mosca cominciava a circolare fra la gente comune una frase graffiante: “Di giornali ne leggo molti, ma i negozi restano vuoti”.
Quello che mancava era la capacità di indicare gli strumenti di applicazione, i soggetti cui attribuire responsabilità, i tempi necessari.
Due esempi: per aumentare la produttività del lavoro, rinnovare le tecnologie, spostare investimenti verso l’industria leggera e migliorare la qualità dei beni di consumo, bastava concedere una crescente autonomia alle singole imprese, senza un sistema fiscale che ne premiasse i risultati o li redistribuisse, e senza un piano vincolante che ne orientasse le scelte?
Oppure: bastava tollerare la nascita di un’imprecisata iniziativa privata o cooperativa, in assenza sia di imprenditori sia di un mercato e senza porre né limiti né trasparenza ai bilanci, né garanzie contrattuali, per impedire che si tramutassero in economia sommersa e speculativa?
Poi c’era il problema dello stato del partito.
Da settant’anni l’Urss si era retta su un potere politico il cui motore e gestore era un unico partito (lo Stato era solo uno strumento, il suo braccio secolare).
Negli ultimi decenni, però, il partito – restando unico e autoritario – aveva via via cambiato ruolo e natura. Dietro il cambiamento formale che pareva riconoscere una pluralità di idee e di interessi si formava un ceto dominante che saldava in un blocco nomenclatura politica e tecnocrazia, riduceva l’ideologia ad un catechismo cui pochi credevano, incoraggiava la passività delle masse offrendo loro in cambio tolleranza per l’assenteismo e di conseguenza per il lavoro nero.
Serviva perciò a poco, per superare questo muro, separare il partito dallo Stato, limitandone il potere, se prima e contemporaneamente non si riusciva a farvi rinascere un’identità ideale e a ricostruire un rapporto con le masse svantaggiate.

Il collasso finale
Alla base del collasso finale intervenne la divaricazione e poi lo scontro violento fra coloro che avevano condiviso la Perestrojka e sostenuto Gorbacev.
Da un lato coloro che erano convinti della necessità che anche profonde riforme non dovessero cancellare il carattere socialista del sistema, non si dovesse né condannare in blocco la storia passata, né concedere al mercato e alla proprietà privata un ruolo preminente.
Non solo per la fedeltà ai principi, ma per impedire la disorganizzazione economica del paese.
Dall’altro quelli ormai convinti che ormai bisognava andare in fretta fino in fondo, cioè orientarsi a chiudere la parentesi aperta dalla rivoluzione di Ottobre e costruire un nuovo sistema coerente, assumendo come modello le democrazie occidentali.
Gorbacev sostenne la prima opzione, per il momento maggioritaria nel partito e nel paese.
Per reggere sarebbe stato necessario inventare un sistema sociale del tutto nuovo; occorreva non solo il consenso, ma la partecipazione attiva di milioni di persone, anzitutto nelle classi popolari, e occorreva neutralizzare chi sul socialismo aveva sempre giurato, ma nel socialismo aveva coltivato privilegi, o scarico di responsabilità.
Gorbacev cercò di reagire cambiando l’agenda della Perestrojka, cioè trasferendo la riforma del potere politico su una nuova priorità, la democratizzazione dello Stato (maggiori poteri ai soviet delle repubbliche eletti con il voto popolare e un’effettiva pluralità di candidati).
Intenzioni ottime, risultati pessimi: per il Pcus le elezioni sanzionarono una sconfitta.
Il potere politico era ormai del tutto frammentato: soviet con facoltà legislative nei rispettivi territori, in continua competizione sulla suddivisione delle risorse con lo Stato; soviet della Federazione russa molto più influente rispetto ad ogni altro; governo centrale quasi esautorato; trentasette ministeri che non sapevano a chi chiedere ordini e ne facevano volentieri a meno.
Ognuno di questi centri e livelli pretendeva che le proprie leggi, entro i propri confini, prevalessero sulle altre.

La democratizzazione frettolosa diventava confusione. Tutto questo impresse un’accelerazione ed una moltiplicazione dei conflitti etnici e religiosi che, due anni più tardi, produssero la fine dell’Unione Sovietica e offrirono l’ascesa al potere, per quanto restava, di Boris Eltsin, regista ed inventore di un nuovo populismo che, in nome della libertà, finì col bombardare il parlamento e, in nome del popolo, rapinava il patrimonio pubblico per spartirselo con oligarchi corrotti e spesso mafiosi.
Al potere si insedia una nuova classe sociale, con il suo personale politico, non frutto delle imprese vitali, ma un potere oligarchico prodotto della più grande rapina della storia.
Ed ecco il prodotto di questa “civilizzazione”: crollo della produzione, disuguaglianze scandalose, una tragedia infinita per decine di milioni di persone ricacciate nella povertà, prive di protezioni, la riduzione drastica della speranza media di vita, l’esplosione di conflitti etnici cruenti.

Conclusione
Noi assistiamo da molti anni ad una solenne rimozione, ad una “damnatio memoriae” condotta? subita? da una parte cospicua degli epigoni di quella storia grande e tragica che fu la costruzione – per la prima volta nella storia – di uno Stato operaio.
L’attacco ha avuto caratteristiche proteiformi, spesso il giudizio è stato sommario, quando non del tutto fondato su una contraffazione dei fatti, necessaria per occultare il senso profondo di una’abiura e di una deriva sempre più esplicita verso il pensiero liberale sino alla sua forma e alle sue manifestazioni più sciaguratamente oppressive.
Ripercorrere controcorrente il fiume dell’esperimento sovietico, oggi è un compito politico. Se non si capisce lì, non si capisce qui.
Perché non rimanesse pietra su pietra di quella storia si è giunti sino a condannare in blocco l’intero Novecento e ciò in quanto l’esperimento sovietico si è piazzato al centro del Novecento e lo ha definitivamente segnato.
“Batti e ribatti – ha scritto efficacemente Mario Tronti – alla fine ho capito che l’antinovecentismo è sostanzialmente una forma, la più inconsapevolmente diffusa, di anticomunismo. Indipendentemente dal merito dei fatti, in realtà non si sopporta che quella cosa lì ci sia stata. Per cui anche parlarne male è rischioso. Conviene non parlarne affatto, finché come di Atlantide si favoleggerà che ci fu, ma senza sapere dove come e quando. I nostri avversari l’hanno capito, e molti nostri amici, senza saperlo, gli danno una mano: il modo più sicuro per tenere in piedi questo miserabile loro presente è cancellare ogni traccia di memoria alternativa. Oggi stiamo vivendo lo stadio avanzato, maturo, prossimo a una soluzione finale a livello mondo, di una storica, classica, lotta di classe tra politica ed economia. Lotta di classe, non altro. Schierarsi sull’uno o sull’altro fronte è la prima decisione da prendere. Poi la politica si può riformare, ridefinire, riorganizzare e quant’altro, ma, pensiamoci bene, ogni gesto, ogni parola, ogni iniziativa, che in qualche modo contribuisca a una sua delegittimazione, è un danno arrecato alle persone cha vivono nel basso della società e che hanno nella lotta di classe la sola arma di difesa e di attacco”.
Ecco, la rivoluzione russa prese una piega diversa da quella che speravamo, una “forma profana”, come ha scritto in un suo splendido libro Rita Di Leo, ma il suo atto di nascita fu qualcosa di sacro. E questo perché il Palazzo d’Inverno i bolscevichi non lo criticarono, lo conquistarono.
Per questo non saremo mai abbastanza grati a quel pugno di uomini e di donne che provarono a scrivere un’altra storia, una storia di riscatto, di emancipazione, di liberazione del genere umano che parla ancora, e quanto forte, anche a noi e al tempo presente.

DINO GRECO

da rifondazione.it – Formazione

categorie
Comunismo e comunisti

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