L’Italia verso un regime autoritario

Come nasce un regime autoritario? La domanda è di non facile soluzione: una risposta univoca non esiste. La storia ci insegna molto, è maestra sempre priva di scolari e,...

Come nasce un regime autoritario? La domanda è di non facile soluzione: una risposta univoca non esiste. La storia ci insegna molto, è maestra sempre priva di scolari e, tuttavia, ci mostra che una serie di convergenze tutt’altro che parallele, possono creare le condizioni adatte alla salita dell’uomo forte al potere, di quello che solitamente esce dal cilindro molto pragmatico di una crisi economica che devasta i ceti più deboli unitamente ad una paura portata all’eccesso, ad una minaccia che deve poter essere collegata – come spettro onnipresente nella tribolazione quotidiana – ad una narrazione politica di fatti inesistenti,

Quindi siamo davanti alla “creazione” vera e propria di una dimensione dell’esistenza di ciascuno di noi, simile al mondo di un Luna Park dove tutto si trasforma, si deforma e si traduce in alterità rispetto alla realtà concreta e vera. Quella fuori dai confini delle attrazioni e degli stupori che sono generati da illusioni, da inganni voluti.

Ed anche qui siamo nell’espressione dell’inganno, nella mitizzazione negativa di fenomeni sociali che non riguardano solo l’Italia ma che sono e diventano “storici” già nell’essere ancora attuali perché se ne comprende la vasta portata che, comunque, mai si riversa solamente su un popolo soltanto ma coinvolge interi continenti.

Altrimenti non sarebbe “storia nel presente” ma un lento divenire della medesima in un trascinarsi appresso un vicinissimo passato.

In uno dei tanti pezzi che avevo scritto tre anni fa per la Sinistra quotidiana sui pericoli di un ritorno ad un regime autoritario in Italia (e non solo), invitavo a leggere la versione non “nuda e cruda” del testo hitleriano ma quella corredata dalla critica di uno storico come Giorgio Galli.

La Weltanshauug nazista trasuda dai passaggi e dai toni dei due libri del “Mein Kamp” di Adolf Hitler (si parla anche di quello uscito postumo nel 1961).

Solo a fine guerra gli storici hanno potuto iniziare a comprendere la complessità e, insieme, l’assurda banalità della costruzione di una identità dell’uomo “superiore” tedesco che poteva essere, ad esempio, separata dal mito del “superuomo” di Nietzsche che, infatti, nulla aveva a che vedere con la separazione tra esseri superiori ed esseri inferiori operata dal nazionalsocialismo.

Il movimento populista e pangermanista germanico, prima dell’avvento di Hitler alla guida dell’NSDAP, era antisemita ma, ad esempio, non aveva ancora sviluppato il concetto di “Lebensraum” (il cosiddetto “Spazio vitale” necessario ai tedeschi per essere superiori come razza mondiale sfruttando i giacimenti di petrolio del Caucaso e le vastità del territorio russo appena al di là della Polonia ricostituita nel 1919) e nemmeno si era spinto alla teorizzazione della assoluta superiorità germanica su altri popoli.

E’ Hitler a costruire questa posizione della Germania e del suo popolo nel contesto mondiale, distorcendo persino i caratteri storici dell’antisemitismo, facendone un fecondatore del bolscevismo e affermando, di conseguenza, in modo del tutto paradossale che il movimento comunista era al servizio del grande capitale.

Non è dunque esatto trattare il “Mein kampf” come un libercolo esclusivamente pieno di deliri. Rimane ciò in termini contenutistici, ma come elemento probatorio storico è interessante da leggere e studiare attentamente per comprendere ciò che uno squattrinato, perdigiorno e mediocre studente austriaco, finito per alcuni anni in quello che oggi chiameremmo un “rifugio per barboni” è potuto diventare, grazie ad una serie di concomitanze – compresa la sua abilità oratoria –  ha potuto fare attraverso lo sfruttamento di circostanze che gli hanno consentito di mettersi in una luce nazionale da strambo capo di un movimento che pareva destinato a rimanere “locale”, esclusivamente bavarese. 

Il falso socialismo hitleriano, tutto proteso alla ricerca dei consensi degli industriali della Ruhr e dei grandi notabili berlinesi di un mondo politico ancora filo-monarchico e molto poco aderente ai princìpi repubblicani sorti con la rivoluzione del novembre 1918 che detronizzò il Kaiser, ha avuto vita difficile nel farsi largo tra le masse dei lavoratori tedeschi. 

Una democrazia traballante come quella di Weimar, in cui il gotha dei cancellieri e dei ministri, soprattutto il presidente Hindeburg, propendeva per una soluzione di governo autoritario, pur non avendo in mente gli eccessi orrorifici del nazismo, è finita nella deriva assolutista e totalitaria proprio per la mancanza di un legame di fiducia tra quelli che anche allora venivano spregiativamente chiamati “i partiti”, SPD, Zentrum e altre forze di governo e una larga parte di popolazione schiacciata dal peso inflattivo e, in ultima ma non meno importante istanza, dalla crisi agraria che si verificò in Germania tra il 1928 e il 1929.

I tratti del regime totalitario forse erano difficili da vedere allora, pur essendo all’ordine del giorno in ogni lander tedesco una serie di aggressioni e omicidi perpetrati dalle SA (le squadre d’assalto naziste guidate da Ernst Röhm) che non bastavano tuttavia a dichiarare uno stato di emergenza.

Qualunque giovane repubblica democratica avrebbe potuto seguire le stesse sorti della Germania di Weimar se si fossero create quelle condizioni: debito estero, crisi economica, crisi agraria, crescita dei movimenti razzisti e xenofobi, violenze e aggressioni spinte dai tanti comizi urlati da Hitler durante le sue trasvolate su tutto il territorio tedesco.

L’appoggio finanziario fu importante ma fu uno dei diversi punti di appoggio su cui il nazismo poté contare per arrivare “democraticamente” e mediante elezioni ancora libere al potere…

Se si riesce a riconoscere il sorgere dei tratti di un regime autoritario, non è affatto detto che le domande debbano poi fermarsi qui: viene necessario chiedersi come fermare questa deriva, come impedire che una Costituzione sia stravolta senza essere toccata formalmente, senza altri referendum abolizionisti del bicameralismo perfetto o di riduzione del Parlamento a giullare del governo.

Qui le risposte sono ancora più tortuose di quelle imprecise e sicuramente non esaustive che ci siamo dati fino ad ora. Non esiste un “prontuario” di difesa dalle dittature.

E’ certo che senza una presa di coscienza di massa e senza una forza politica che la supporti e ne sia spunto e propulsione evolutiva, senza un sindacato riconosciuto come necessità sociale, senza un diffuso sentimento popolare che si fondi sulla fiducia per le istituzioni (che devono meritarsela…) e che riconosca nell’uguaglianza il fondamento di un popolo, questo stesso popolo è destinato a lasciare e dare spazio ai peggiori cattivi maestri del sovranismo.

Sovranismo. Un termine moderno, un sinonimo sempre più esplicito di neofascismo: in particolar modo quando chi sbeffeggia questi termini lo fa autoriferendoseli con un atteggiamento vittimistico della durata d’un secondo per poi passare, immediatamente dopo, al trionfalismo del “saper fare”, dell'”essere al lavoro”.

Troppi italiani, come troppi tedeschi settant’anni fa, stanno – come bene scrive Kershaw – “lavorando incontro” ad un nuovo grande capo, ad un nuovo uomo forte. Tutto viene affidato nelle mani del nuovo salvatore della patria.

La storia insegna che ogni “salvatore della patria” è stato invece una sciagura per la patria stessa e che ha lasciato dietro sé miseria e macerie: morali e materiali.

La storia insegna e sarebbe ora che qualche scolaro lo avesse.

MARCO SFERINI

19 aprile 2019

foto tratta da Pixabay

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