L’errore dell’ANPI e degli altri che disertano il Salone del Libro

Nel 1924 Adolf Hitler iniziò la stesura del suo libro, il “Mein kampf” (“La mia battaglia“). Il testo, almeno nella sua prima redazione scritta a macchina e meditato a...

Nel 1924 Adolf Hitler iniziò la stesura del suo libro, il “Mein kampf” (“La mia battaglia“). Il testo, almeno nella sua prima redazione scritta a macchina e meditato a lungo in pochi mesi di carcere dopo il tentativo di colpo di Stato in Baviera, non era adatto a masse di lettori anche solo un po’ attenti all’evoluzione della vita del futuro führer della Germania: fu, come si direbbe oggi, un “flop” editorialmente parlando.

Scritto male, ampolloso, autocelebrativo, praticamente era intriso soltanto di una visione pangermanista che faceva accigliare anche i più ferventi nazionalisti: antimarxismo e antigiudaismo fuoriuscivano da quasi tutte le pagine, mentre ancora era assente la proiezione nazista verso l’Est e ciò che diventerà essenziale per la “vitalità” della Germania: proprio quello “spazio vitale” (o liberato) su cui il popolo tedesco avrebbe dovuto campare grazie alla messa in stato di schiavitù di “popoli deboli” e “inferiori“.

Dunque, il “Mein kampf” fu un insuccesso clamoroso, almeno fino a quando Hitler non divenne cancelliere e la lettura del libro fu imposta nelle scuole, diffusa in tutti gli ambienti di lavoro, sociali e persino regalata agli arianissimi sposini novelli.

L’errore di allora, nell’impedire che potesse divenire un “best-seller“, è certamente legato alle vicende politiche che seguirono, alla claudicanza dei governi borghesi di una destra tedesca che stava stretta nelle maglie costituzionali della Repubblica di Weimar e che quindi, vedendo crescere i consensi nazisti, paventando in ciò una esclusione dei “vecchi partiti” dalla vita governativa del paese, pensò di poter arginare il tutto mettendo alla prova proprio Hitler sul banco del governo.

Fu un errore clamoroso e tutti sappiamo come è andata successivamente. Almeno… tutti dovremmo saperlo…

Perché la politica, che è influenzata (e gestita) dai flussi dell’economia, non di meno si lascia condizionare ovviamente dalle idee, dai pensieri, da ciò che si scrive e si legge: quindi dalla propaganda ma pure dal “racconto” dei fatti, quindi dalla “narrazione“.

Nel 1925, dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, più di un centinaio di deputati della Camera del Regno d’Italia, decisero di abbandonare le sedute parlamentari e di ritirarsi (come faceva la plebe romana quando aveva forti contrasti con il patriziato) simbolicamente sull’Aventino.

Mussolini ne approfittò per orchestrare e inscenare una presa di coscienza e una assunzione di responsabilità per l’omicidio di Matteotti da parte di una squadraccia fascista; domandò persino la propri incriminazione da parte di un Parlamento privo di opposizione e, naturalmente, la sua enfatica e retorica richiesta venne respinta dai fascisti.

Il risultato fu che, senza opposizione presente in aula, i fascisti dominarono la scena politica approvando una serie di “leggi fascistissime” che trasformarono il liberare Regno d’Italia in uno Stato dittatoriale, con un partito unico e la decadenza di tutti i deputati di opposizione dalla carica ricoperta.

La mancanza di una alternativa presente, viva, concreta ha in entrambi i casi consentito azioni e reazioni che sarebbero certamente potute essere differenti. Ma siccome la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, eppure deve essere maestra, occorre imparare da ciò che è avvenuto.

Noi ci troviamo oggi in circostanze politiche, sociali ed economiche molto simili a quelle degli anni ’20 del secolo scorso quando, proprio da una crisi economica devastante, da un impoverimento di massa generato prima dai debiti di guerra e poi dal tracollo del 1929, le popolazioni europee si volsero a sostenere chi prometteva loro un riscatto nazionalista che contemplava il recupero di tutta una serie di diritti che erano stati mutilati e resi inefficaci.

Per quanto fosse differente la nascita del fascismo in Italia rispetto al successivo avvento del nazismo in Germania, le similitudini si possono cogliere in tutta evidenza e rischiamo di commettere errori di sottovalutazione dei sovranismi moderni se li consideriamo fenomeni transitori arginabili con strategie aventiniane.

Il lungo excursus storico di cui sopra vorrei servisse a comprendere che quanto accade al Salone del Libro di Torino è emblematico dell’attualità di un rischio per la democrazia che proprio oggi ci divide nell’essere antifascisti e ci fornisce chiavi di interpretazione della lotta differenti, mentre dovrebbe essere chiaro che l’unità, almeno in questi casi, produce una qual certa efficacia.

Difficile quantificarne il potenziale ma almeno non siamo nel campo della sottovalutazione.

La presenza a Torino, ad un salone che è divenuto una delle più importanti manifestazioni europee e mondiali della cultura, di una casa editrice vicina ai “fascisti del terzo millennio“, il cui editore si proclama senza remore “fascista” e i cui testi pubblicati vanno dalla biografia di Matteo Salvini al “Diario di uno squadrista toscano”, da un Pavolini “Ultimo poeta armato” ad un Almirante “Italiano d’Italia”, ha diviso il mondo degli scrittori piuttosto che quello degli editori: il profitto è profitto e… “pecunia non olet“.

Quindi se per gli editori è tutto giustificabile dietro il manto onorevole della necessità di ogni cultura, per gli scrittori – più che giustamente – lo stare fianco a fianco con i fascisti dichiaratamente tali diviene intollerabile: lo comprendo e ne capisco la rabbia. Soprattutto se questa viene da chi ha patito la Seconda guerra mondiale e dovrebbe raccontare al Salone la storia dei sopravvissuti all’Olocausto o magari se, come Carla Nespolo, presidentessa dell’ANPI, ritira la sua adesione e partecipazione proprio per dare un segnale forte di avversione verso una organizzazione dell’evento che accetta una casa editrice di chiara matrice fascista, “denigratrice dell’ANPI“, come si legge nel comunicato dell’associazione resistente.

Lo capisco, lo comprendo con i sentimenti. Ma politicamente, lasciando qualche metro indietro i sentimenti, e anche storicamente non lo capisco e non lo comprendo proprio.

Quello dell’ANPI, di Wu Ming e di altri scrittori è un errore: è evidente che non rimane al Salone del Libro un unico punto di vista, quello fascista, ma che molti altri autori proporranno alternative di pensiero e di studio sulle più svariate tematiche; tuttavia penso che sarebbe stato importante, proprio per la presenza dell’editore fascista, esserci e non ritirarsi su un “Aventino culturale” che rischia di produrre lo scenario già visto nel 1925: l’inefficacia dell’azione politica allora, quella di una trasposizione culturale oggi.

Sarebbe stato importantissimo che tra gli stand degli oltre 60.000 metri quadrati (10 sono quelli occupati dalla casa editrice vicina ai “fascisti del terzo millennio“) ci fosse quello di Wu Ming, ad esempio: la grande opera di studio e ricerca delle fonti atte alla decostruzione di tutta una mitologica versione della storia inventata dalle destre, deve poter essere il controcanto alla tossicità delle narrazioni fasciste.

L’assenza mi fa pensare invece ad una ritirata meramente protestataria, mentre la presenza mi farebbe pensare alla sfida, alla necessaria sfida a chi osa proporre una visione antistoricistica del ‘900 basata su una riqualificazione di figure che hanno devastato l’Italia, che l’hanno condotta non alla “ricostruzione dopo la Prima guerra mondiale“, come affermato oggi in una intervista a “La Stampa” da parte dell’editore del terzo millennio, quanto alle macerie e ai lutti della Seconda guerra mondiale.

Comprendo che, se costui ritiene che “un po’ di dittatura non fa male“, non c’è dialogo ovviamente con chi ha creato la democrazia in Italia dopo il conflitto scatenato dai nazifascisti.

Ma proprio per questo è doveroso non lasciare campo libero a simili figuri che si atteggiano ad editori e che sono solamente propagandisti di idee che sono state e sono tutt’oggi crimini, puniti dalla Legge Mancino e che, tuttavia, proprio grazie alla complessità della macchina democratica (e non al semplicismo totalitario di una dittatura) riescono a farsi largo, nel nome della libertà di espressione, in un contesto che loro disprezzano.

Esattamente come accadde negli anni ’20 e ’30 per il movimento völkisch in Germania: le frange più estreme, come la NSDAP, non usavano mezzi termini nell’affermare che una volta ottenuto il potere avrebbero fatto strame della democrazia attraverso la quale sarebbero comunque giunti al potere per una congiuntura politica loro favorevole grazie alle debolezze altrui.

Non si tratta quindi oggi di ritirarsi con le proprie idee e proposte culturali fuori dal Salone del Libro di Torino, ma di biasimare semmai la scelta degli organizzatori di ospitare una casa editrice di tal fatta.

Grave maggiormente sarebbe stato non invitare l’ANPI, Wu Ming, Zerocalcare e molti altri che, spesso forzando anche i confini del lecito offerto dal mercato, pubblicano testi che insinuano il dubbio su una realtà che viene accettata per la maggiore come “naturale” e “normale”.

Così varrebbe per un dibattito politico: se una forza comunista o di sinistra viene invitata ad una trasmissione davanti a te siede un esponente fascista del terzo millennio, alzarsi ed andarsene è mediaticamente un boomerang, maleodora di supponenza e anche di rifiuto del confronto pur magari volendo essere un gesto civile di protesta, del tutto comprensibile sul piano umano (emozionale, dunque).

Noi dobbiamo essere in grado di sfidare i fascisti di oggi al confronto e di batterli con la forza delle nostre argomentazioni che rispondo, per quanto riguarda il passato, alla verità storica dei fatti, inchiodandoli alle responsabilità che si assumono definendosi eredi di quelle dittature totalitarie: affermando che nazismo e fascismo, che si proclamavano difensori dei loro popoli, quei popoli li hanno gettati in guerre imperialiste dove sono morti a milioni.

Chi ha dunque fatto gli interessi del popolo tedesco? Hitler, che ha sacrificato persino i ragazzi di 13 anni nella battaglia di Berlino di fine aprile del 1945 o chi ha tentato di rovesciarlo e di contrastarlo? Penso a Sophie Scholl e suo fratello Hans, al generale Henning von Tresckow, a Stauffenberg: donne e uomini diversissimi per provenienza sociale, per impostazione culturale, ma segnati da un comune destino.

Quello di contrastare l’abisso nazista. Gramsci, in Italia, provò a costruire dall’inerzia della “Secessione dell’Aventino” un “anti-parlamento” che rendesse “vuoto” nel senso politico del termine l’adunanza fascista a Palazzo Montecitorio, ma non riuscì in questo intento.

Non lasciamo spazi ai fascisti: soprattutto culturali. Non consentiamo loro di diventare protagonisti anche indirettamente di cronache che fanno apparire gli antifascisti come degli snob da salotto, ritrosi e molto borghesi. Se abbandoniamo i luoghi della cultura che loro provano ad occupare è un po’ come se abbandonassimo la memoria, il ricordo e la sua trasposizione indispensabile nell’oggi. L’esempio che dobbiamo dare è la presenza, sempre e comunque.

Dobbiamo avere molta oculatezza e fare come Michela Murgia che sarà presente al Salone del Libro di Torino, sostenendo la tesi che faccio mia: non lasciare campo libero ai fascisti in nessun luogo, in nessuna occasione.

Per dirla con uno slogan: a fascista presente, comunista presente due volte.

MARCO SFERINI

7 maggio 2019

foto tratta da Pixabay

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