Le rime della Storia. Intervista a Carlo Greppi

Chi frequenta abitualmente le trasmissioni di Rai Storia (canale 54 del digitale terrestre) non può non essersi imbattuto nella figura di un giovane professore cui è molto caro il...

Chi frequenta abitualmente le trasmissioni di Rai Storia (canale 54 del digitale terrestre) non può non essersi imbattuto nella figura di un giovane professore cui è molto caro il tema della memoria. Stiamo parlando di Carlo Greppi, dottore di ricerca in Studi storici, membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.
Proprio leggendo il suo primo libro, L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (editore Donzelli, 2012), che ha vinto il premio “Ettore Gallo”, destinato agli storici esordienti, abbiamo pensato a questa intervista in occasione del Giorno della Memoria. Ci è sembrato adeguato chiedere a un giovane storico e divulgatore televisivo di materie così complesse come quelle che riguardano il cammino umano, alcune opinioni che intrecciano problemi del presente e del passato con una proiezione necessaria al futuro quanto meno prossimo.
Vi segnaliamo che il professor Greppi ha pubblicato per Feltrinelli La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria (2015, in ebook), il romanzo per ragazzi Non restare indietro (2016) e il saggio Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (2016).
Collabora anche con il blog culturale Doppiozero e con la Scuola Holden (Biennio in Storytelling & Performing Arts). È socio fondatore dell’associazione Deina e presidente dell’associazione Deina Torino, e organizza da diversi anni viaggi della memoria e di istruzione, con i quali ha accompagnato oltre ventimila studenti provenienti da tutta Italia ad Auschwitz e in altri ex lager del Terzo Reich, alla scoperta della storia.
Buona lettura a tutte/i.

Professor Greppi, sfogliando “Non Restare indietro”, leggendolo anche ripetutamente in determinati passaggi, capita di affrontare nella propria mente il tema del rapporto tra la vita di tutti i giorni di un giovane adolescente e l’incontro con una sconosciuta: la Memoria con la emme maiuscola, quella cui non si può prescindere perché pietra angolare di lezioni non solo narratrici di date e percorsi storici, ma perché soprattutto portatrice di una lezione morale necessaria per non ripetere le torsioni umane nel dis-umano.
Le chiedo: esistono “angoli bui” della nostra vita presente, luoghi della mente o del quotidiano dove la memoria non arriva, dove non riesce ad arrivare?

La memoria è un meccanismo, come diceva Primo Levi, “meraviglioso ma fallace”. Ci può ingannare, venire in nostro soccorso, sorprenderci.
E se è vero che il nostro rapporto con la memoria individuale è personale e in qualche modo passivo, la memoria collettiva e la memoria pubblica si costruiscono, insieme, scegliendo quali eventi e quali processi storici ricordare, e perché.
Io credo che ci si debba educare a saper riconoscere nel nostro passato i nostri stessi potenziali “angoli bui”: la storia è stata scritta da esseri umani in tutto e per tutto come noi. È doloroso rendersi conto del fatto che, in quanto uomini e donne, possiamo essere terribili quanto possiamo essere meravigliosi. Penso che la storia debba servirci – come dici tu – da “pietra angolare”, sulla quale costruire anche la percezione di noi stessi, anche se all’epoca noi non c’eravamo, e questo va sempre ricordato quando si parla di “responsabilità” della spaventosa torsione collettiva verso il baratro che fu la Shoah.
Intendiamoci, però: la responsabilità è individuale e mai collettiva – tanto meno, ovviamente, ereditaria. Noi siamo responsabili del nostro presente, non certo del tempo vissuto da altri.

Per rispetto ad una “attualità” della memoria, non possiamo non domandarle la sua opinione sul crescendo esponenziale di movimenti xenofobi, apertamente intrisi di politiche razziste, fatte di contrapposizione tra esseri umani sulla base di schemi di odio fondati sulla dicotomia tra “civiltà” superiori ed inferiori.
Vecchio e Nuovo continente, con la vittoria di Donald J. Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America, sembrano avvicinarsi su questo piano: nazionalismo, recinzioni, muri, sbarramenti e un ritorno ad una autarchia che coronerebbe economicamente il tutto. Europei e americani stanno ripetendo i passi della grande crisi di inizio Novecento da Weimar fino alla legittimazione per via democratica di un nuovo autoritarismo di dimensioni globali?

Oramai è diventato un mio e un nostro – dell’associazione Deina – refrain, la massima attribuita a Mark Twain: “La storia non si ripete, ma fa le rime”. Naturalmente ci sono molte analogie, e anche non poche differenze, tra la fase che precedette la seconda guerra mondiale e quella attuale, ed è fondamentale sapere riconoscere le rime. La mia opinione è che questi movimenti dovremo e dobbiamo combatterli, con le parole, innanzitutto, anche se è faticoso, ci si attira addosso “haters”, anche se può essere persino pericoloso.
E penso che bisognerebbe cominciare dal nostro vocabolario, abolendo la parola “identità” (e ogni suo derivato): gli antropologi lo scrivono da anni, e sono rimasti in gran parte inascoltati. Ciascuno è identico solo a se stesso (e anche di questo non sarei per niente sicuro) e, se i promotori delle nuove crociate identitarie si fermassero a riflettere anche solo un secondo, scoprirebbero che tutto ciò che credono di essere è stato in gran parte costruito a tavolino, neanche troppi anni fa. Lo Stato-nazione, innanzitutto, ma la stessa idea di Europa, per rimanere nell’area geografica della quale l’Italia si sente parte. Ne parlo spesso con i ragazzi, anche con quelli delle scuole medie inferiori.
Loro ci arrivano – ed è entusiasmante discuterne insieme – a capire come la nostra autopercezione sia in gran parte una costruzione culturale capace di produrre dei danni spaventosi. Molti adulti, invece no. Sarà che, a furia di dare per scontate certe appartenenze arbitrarie, la nostra capacità di giudizio si atrofizza?

Lei ha una certa dimestichezza con i mezzi di comunicazione di massa che, come hanno riconosciuto anche i più grandi tiranni (a cominciare dalla diffusione radiofonica, ricordando proprio l’utilizzo che ne faceva il potente ministro della comunicazione nazista Joseph P. Goebbels), sono un veicolo straordinario per la divulgazione e la propagazione delle idee. Esiste un limite soggettivo all’acquisizione delle idee oppure le masse sono influenzabili proprio perché l’individuo, singolarmente inteso, subisce, tra l’altro, anche un effetto di trascinamento?

È una domanda fondamentale che dovremmo porre continuamente anche a noi stessi. Io penso che il conformismo, lo spirito di corpo e il senso di appartenenza siano delle armi a doppio taglio: se il gruppo può essere una risorsa per i suoi membri (purché non lo sia a danno di un altro gruppo) è anche vero che quello che tu definisci “l’effetto di trascinamento” è la condizione necessaria per la propagazione di molte idee, non di rado distruttive. Io credo che ci si debba educare a essere scomodi, disobbedienti, controcorrente.
Anche, nell’esprimere opinioni in qualche modo discordanti da quelle della gran parte dei nostri “contatti”, a stare sul culo alla gente. Ecco.

La memoria si costruisce giorno per giorno con gesti e azioni che spesso vanno in controtendenza al fluire degli eventi. Contribuiscono a formarla soprattutto i singoli, non solo i popoli interi. I singoli come Cédric Herrou, un giovane agricoltore francese di 37 anni. A molti questo nome dirà poco o niente. Tra pochi giorni si conoscerà il verdetto sull’accusa che lo vede imputato di aver favorito l’ingresso in Francia di migranti, in maniera irregolare. Rischia fino a cinque anni di carcere e una multa fino a 30.000 euro.
In una società come quella prima descritta, fatta di muri e di omologazione di massa a sentimenti di odio e paura dello straniero, del “diverso”, del “non-conosciuto”, chi è Cédric Herrou? Un eroe? Un ribelle? O, più semplicemente, un essere umano che vede altro rispetto al comune vedere filtrato dai mass-media e dalla disperazione sociale?

Ho avuto la fortuna di conoscere Cédric, pochi giorni fa. È stato ospite a Cuneo, e con i miei amici Alice, Daniele, Giacomo, Marco, Ruben e Sonia ci siamo precipitati, da Torino, per incontrarlo. Cédric è un essere umano, è una persona comune, è una persona che, dopo tre arresti e varie incursioni della polizia, ha paura – come avrebbe chiunque, tra noi – e lo ammette, ma che va avanti, perché sa che sta nel giusto. Cédric non è da solo, per fortuna, ma basterà?
Come ho scritto il giorno dopo su Facebook, io non lo so se questa storia stroncherà altre forme di resistenza civile, attuali o future, o se invece ci darà la forza di reagire. Però so che è stato emozionante vedere oltre duecento persone stipate nella Sala Comunale di Cuneo, so che esiste un’Europa diversa, un mondo diverso, che ha trovato in questa lotta un simbolo, il punto di rottura della propria soglia di tolleranza. So che servono avvocati (spargete la voce, anche attraverso il sito La Sinistra Quotidiana) per rispondere colpo su colpo all’illegalità in divisa e alle deportazioni forzate dei migranti, so che si organizzerà una carovana per andare il 10 febbraio a Nizza – il giorno della sentenza, seguirà appello –, so che Cédric cerca di fare rete, e che ha detto una cosa bellissima: facciamo quello che possiamo, fate quello che potete ma, qualunque cosa farete, fatela con il sorriso.

Un ultimo salto nella storia: da Cédric Herrou alla Germania degli anni ’30 e ’40. Un grande storico e saggista tedesco, Joachim Fest, particolarmente attento alle problematiche del suo popolo nel rapporto tra memoria e presente, ha scritto memorabili pagine su fenomeni apparentemente episodici nella breve vita del Terzo Reich come la resistenza al potere hitleriano. Dal dopoguerra fino a pochi decenni fa sembrava che la Germania fosse una voce unica, corale nell’approvare il nazionalsocialismo.
Eppure, dai lavori di Fest, dalle trasmissioni che lei conduce su Rai Storia, abbiamo scoperto che una coscienza libera esisteva ma non aveva coordinazione. Il terrore aveva isolato queste voci che, sfidando una macchina di repressione totale, hanno agito e hanno pagato con la vita la ribellione. I ragazzi della “Rosa bianca”, la “Rote kapelle”, la rivolta nello stato maggiore tedesco guidata da Beck e Stauffenberg, la rivolta delle donne di Rosenstrasse; tutte storie che si trovano raramente nei testi scolastici e che ora il cinema ha ripreso e proposto.
Perché così tanto silenzio per così tanto tempo? Si può sacrificare qualche parte della memoria per necessità, per opportunità o per convenienza storico-politica? Dobbiamo conoscere tutto o possiamo fermarci… dove?
Georg Elser

Sono domande profonde, che chiamano in causa la storia, la storiografia, la storia della memoria e la narrazione della storia, l’uso pubblico. Va sempre ricordato che il nazismo, appena insediato, arrestò in massa i propri oppositori, aprendo fin da subito i primi lager, e sulla Germania calò una coltre di terrore e consenso nel quale i margini di manovra per ribellarsi furono estremamente minimi. Eppure, come ricordi, ci furono storie straordinarie che, effettivamente, il cinema degli ultimi anni ha spesso ripreso e raccontato. Atti di resistenza eroici (penso alla storia di Georg Elser, il cui tirannicidio non riuscì per un colpo di vento della Storia) o piccoli grandi episodi di resistenza civile, come la storia dei coniugi Hampel che ci ha raccontato Hans Fallada in “Ognuno muore solo”.
O come quelli che, con una commovente e invisibile costanza, permisero a oltre mille ebrei di salvarsi nel cuore del Terzo Reich: quando cadde Berlino, vennero trovati nascosti nei bassifondi della città. Quante decine di migliaia di berlinesi sapevano, avevano dato una mano o, semplicemente, non li avevano denunciati per giorni, settimane, interminabili mesi? Io penso che queste storie vadano raccontate, per imparare a conoscere nel profondo quanto è complesso l’essere umano, quanto può essere, per l’appunto, terribile, meraviglioso, o un inestricabile intreccio di atteggiamenti anche contraddittori.
Pensa al tema della “zona grigia”, che ho provato ad affrontare nel mio ultimo libro (Uomini in grigio): statisticamente, se il presente dovesse prendere una direzione drammatica come la storia di cui stiamo parlando, la stragrande maggioranza di noi non sarebbe carnefice o cacciatore di uomini, né sarebbe vittima, ma starebbe in quel magma indistinto tra i due estremi.
Eppure è un tema che è stato per lungo tempo ignorato, e tutt’ora è oggetto di feroci polemiche. Perché? Penso che sia più comodo pensare che il male sia sempre una faccenda lontana da noi, che sia stato un affare di altri, in un tempo lontano, che non può tornare. Io sento che certe rime si fanno sempre più sentire, e se provo a guardare il nostro presente con gli occhi degli storici del futuro, mi chiedo: come ci definiranno? Cosa diranno di noi, di noi che sapevamo tutto o quasi? Come racconteranno il nostro tempo?

Grazie, professor Greppi. Buon lavoro.

Grazie a voi, e avanti tutta…

MARCO SFERINI

redazionale

5 febbraio 2017

foto tratte dal profilo Facebook di Carlo Greppi

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