L’autunno dei Cinquestelle e della rivoluzione mai avvenuta

La crisi dei modelli politici è, oltre ogni ragionevole dubbio, crisi speculare di una società che procede a vista d’occhio sia per quanto riguarda una certa idea della condizione...

La crisi dei modelli politici è, oltre ogni ragionevole dubbio, crisi speculare di una società che procede a vista d’occhio sia per quanto riguarda una certa idea della condizione istituzional-civile del Paese, sia per quanto concerne la più dinamica, veloce e quindi complessa struttura dell’economia odierna.

Siamo in presenza non soltanto di evoluzioni che si riferiscono a trasformazioni sul piano legislativo, ma davanti a mutamenti realmente antropologici: composizioni e scomposizioni di “sentire comune” sono così improvvisi (forse anche improvvisati) da annullare praticamente qualunque “modello politico” precedente in merito alla capacità di analisi del presente. Anche le novità sorte nella contemporaneità, come il “grillismo“, il movimentismo pentastellato strutturato da nord a sud della penisola, che ha festeggiato da poco i dieci anni nell’ingresso della scena sociale e politica del Paese, diventano obsolete e superate perché costrette a scendere a patti con quella politica di palazzo tanto odiata e fatta odiare ai cittadini per scalare le vette del potere medesimo e “aprire il Parlamento“, ad esempio, “come una scatoletta di tonno“.

La mobilità dell’elettorato, fenomeno anche endemico e naturale nelle espressioni di democrazia rappresentativa, è aumentata proporzionalmente alla delusione provata nel momento in cui l’alleanza, o “contratto di governo“, con la Lega è divenuta puro tatticismo e ha smesso di comunicare quella visione di più ampio respiro che, pur nella sua criticabile (e doverosamente criticabile) funzione interclassista, prometteva una nuova stagione proprio di vita quotidiana al popolo italiano.

Prescindendo dai rapporti di forza economici esistenti, facendo finta di non doversi mai confrontare con nessun soggetto politico, di poter crescere esponenzialmente e arrivare al potere senza alcun compromesso di sorta, il Movimento 5 Stelle si è scavato un inizio di fossa dentro cui rischia di rimanere morto e sepolto perché ha dovuto alla fine scegliere tra la sopravvivenza e la fermezza riguardo all’intransigenza dei primi anni: quelli dell’opposizione alle maggioranze di governo formate per lo più da governi tecnici sostenuti dal PD e poi dal PD stesso.

Dal tatticismo usato nella gestione della comune presenza con la Lega nel governo “giallo-verde“, si è poi passati alla “disperazione politica” come disadorna e fragile pietra angolare di un trasformismo di nuova generazione che, in tutta evidenza, è apparso a chiunque davvero il passo più lungo della gamba, la lontananza più eclatante dal “primo Movimento 5 Stelle“, dai “meet up” di un tempo.

I classici ci aiutano sempre un po’ a comprendere ciò che i contemporanei non riescono del tutto a spiegare. Scrive Hegel che “…così lo sviluppo di uno stato di cose è, dunque, in apparenza pacifico ed è inavvertito. Dopo un lungo tempo una costituzione perviene così a tutt’altro stato dal precedente“.

Nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico“, Marx chiosa Hegel interrogandosi sull’inavvertenza dello “sviluppo” delle cose, quindi del divenire dei fatti, anche in termini politici e richiama in ciò una contrapposizione tra percezione della trasformazione dei soggetti quanto delle istituzioni. Ci troviamo comunque dentro all’analisi di “rotture” anche violente che possono avvenire: le rivoluzioni, i colpi di Stato medesimi; oppure assistiamo, per l’appunto, a “transizioni” pacifiche e inavvertite.

La crisi, infatti, del Movimento 5 Stelle nell’attuale scenario politico italiano è il prodotto di un ingresso prepotente di una saldatura tra rabbia popolare per il cattivo stato e stile di vita quotidianamente patito (è più giusto definirlo così… rispetto a “vissuto“) da larghe fasce di “sopravviventi” e anche di ceto medio che avevano sperato, investito su un nuovo modello proprio di “rottura politica” non violenta ma che fosse però avvertita nel suo impeto magari dalle classi dirigenti del Paese.

In questo senso la così definibile “rivoluzione” dei Cinquestelle è fallita e tramontata in questo autunno privo di scossoni politici se non la fondazione di Italia Viva prima e del partito di Calenda poi. Ben poca cosa il secondo, al momento. Differente il gioco renziano di sponda tra PD e destre moderate in crisi (Forza Italia).

In sostanza Marx ci aiuta a capire che laddove esiste un potere come quello legislativo, nel nostro caso il Parlamento composto da due Camere equipollenti, “là dove ha dominato nella sua specialità, ha fatto, in genere, le grandi rivoluzioni organiche generali“. Non siamo quindi innanzi alla via ad un nuovo modello di vita, di sviluppo economico-sociale tramite l’apertura di una assemblea come “una scatoletta di tonno“; siamo davanti a mero riformismo, ad un progressivo logoramento dei princìpi iniziali di assoluta intransigenza nel proclamarsi “vergini” sotto ogni punto di vista rispetto alla “contaminazione” con la tanto rampognata “casta”.

Più severo è ancora Marx nei confronti del potere esecutivo, dei governi: “Ha fatto piccole rivoluzioni, le rivoluzioni retrograde, le reazioni; esso non ha fatto la rivoluzione per una nuova costituzione contro una invecchiata, ma contro la costituzione, precisamente perché il potere governativo è stato il rappresentante della volontà particolare, soggettiva, della parte magica della volontà“.

Se attraverso la presenza parlamentare di opposizione, dunque, i grillini potevano risalire velocemente le vette del 35% dei consenti mostrandosi quella alterità rispetto alla stagnante politica dei dualismi con Bruxelles, al consegnare il Paese nelle mani della Banca Centrale Europea e farne una colonia dell’espansionismo economico tedesco, una volta arrivati al potere per vie non del tutto dirette, con un mandato degli elettori differente rispetto al successivo “contratto” di governo (seppure sottoposto al giudizio insindacabile della “piattaforma Rousseau“), a poco a poco sono stati costretti a diventare quella controrivoluzione che avevano giurato di combattere senza se e senza ma.

Il governo Conte 2 ne è la dimostrazione più lampante ed evidente: se dall’opposizione avevano tratto la linfa della loro esistenza pseudo-rivoluzionaria in una politica italica tutta intrisa di trasversalismi tra esigenze del mercato liberista più spinto e bisogni veri, concreti dei sopravviventi moderni, una volta al governo hanno dovuto, lentamente ma inesorabilmente, cedere, una dopo l’altra, tutte le ferme riluttanze (prive di qualunque fulcro ideologico… chi è causa del suo mal, del resto, pianga sé stesso…) che erano quei paletti che avrebbero fatto scommettere anche al più scettico tra i brockers britannici che mai e poi mai il M5S si sarebbe potuto alleare col PD in un governo nazionale.

Ecco che la rivoluzione grillina si trasforma in controrivoluzione e lo fa mantenendo i decreti sicurezza del precedente governo per garantirsi una sponda elettorale di destra e, al contempo, proclama la sua vittoria nel taglio dei parlamentari mentre siamo in presenza di un ennesimo tentativo di riduzione dell’agibilità democratica delle Camere rispetto agli altri poteri dello Stato, all’equilibrio costituzionale, alla stabilità della Repubblica.

La leadership di Di Maio non sarà per ora messa in discussione, ma il Movimento 5 Stelle è ormai superato, come avrebbe sostenuto Hegel, da quello “sviluppo delle cose” che, rispetto al fragore che fanno da un lato Salvini e la Lega e dall’altro le sardine, è “in apparenza pacifico ed è inavvertito”.

MARCO SFERINI

23 novembre 2019

(le citazioni sono tratte da “Critica dello stato moderno nel giovane Marx”, Newton Compton)

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli