La vittoria di Johnson disunisce il Regno

Un giorno da cani. Il voto di ieri dovrebbe insegnarci qualcosa. Soprattutto suggerendo a molti dei nostri riformatori in servizio permanente effettivo che i sistemi elettorali volti alla governabilità con danno estremo della piena rappresentatività non sono la risposta migliore

La vittoria di Johnson nel voto britannico era annunciata, seppure non nella misura di una maggioranza ampiamente superiore a quella assoluta. L’esito in termini parlamentari è netto. Ma ci consegna un paese più forte? Da questa considerazione possiamo partire per qualche riflessione che si rivolge anche all’Italia.

Il tema decisivo della campagna elettorale è stato il dilemma tra brexit e remain. Johnson ha concentrato su questo il suo messaggio, affiancando solo come contorno alcuni temi sociali.

Ad esempio, la promessa di un rafforzamento del servizio sanitario nazionale. In tal modo ha sostanzialmente svuotato il Brexit party di Farage.
Corbyn e il Labour hanno pagato un prezzo per l’ambiguità e le incertezze mostrate sul tema Brexit, e non si è consolidato un fronte unito per il Remain. Il sistema elettorale ha fatto il resto.

Erano noti i diversi orientamenti elettorali tra aree urbane e aree interne, tra Nord e Sud del paese. Ma l’esito elettorale indubbiamente accresce le tensioni.
In Scozia il Partito nazionale scozzese (Snp), attestato per il Remain, vince quasi tutti i seggi e ottiene il secondo migliore risultato della sua storia, anche a spese dei laburisti. La Sturgeon, primo ministro scozzese, ha immediatamente interpretato il voto come assist per la richiesta di un nuovo referendum sull’indipendenza.

Ha contestato ai conservatori di essere stati sconfitti in Scozia per avere voluto negare agli scozzesi il diritto di decidere per sé stessi.

Ha annunciato che già la prossima settimana il suo governo presenterà una documentazione per sostenere la tesi che il potere di decidere sul referendum non è del parlamento di Westminster, ma dell’assemblea scozzese.

La Sturgeon sembra quindi voler bypassare il no a una nuova richiesta referendaria prevedibile in un parlamento dominato dai conservatori. La strada è difficile, perché lo Scotland Act 1998 (e successive modificazioni, base normativa per la devolution scozzese) prevede tra le «reserved matters» sottratte all’assemblea locale «the Union of the Kingdoms of Scotland and England» e «the Parliament of the United Kingdom».

È ovvia l’incidenza di un quesito referendario volto all’indipendenza. Vedremo quali argomenti saranno portati. Forse, si potrebbe puntare a un referendum di natura puramente consultiva.

Questo per capitalizzare sull’orientamento degli scozzesi, che sembrano dividersi quasi esattamente a metà fra favorevoli e contrari a una Scozia indipendente, mentre sono con ampia maggioranza a favore di una consultazione popolare sul punto.

La vittoria di Johnson ha disunito il Regno. In Irlanda il Sinn Fein ha subito riaperto il cantiere per un voto popolare sull’unità irlandese. Per questo le dichiarazioni di Johnson nell’immediato dopo-voto sono state nel senso di porre fine ai contrasti e guardare insieme al futuro.

Ma l’ostacolo maggiore è dato dalla distorsione introdotta dal sistema elettorale sulla questione di fondo: Brexit vs Remain.  Sommando conservatori e Brexit party si giunge a un totale di poco superiore a 14.600.000 voti. Sommando Labour, Lib-dem e SNP si giunge a oltre 15.230.000 voti.  Quindi nel consenso popolare una maggioranza favorevole all’uscita dall’Europa – almeno nei termini voluti da Johnson – non c’è.

Si aggiunga che il partito conservatore ottiene con il 43,6% dei voti quasi il 55% dei seggi. Nei numeri parlamentari la maggioranza è salda, ma il paese rimane profondamente diviso secondo molteplici linee di frattura.

Il voto di ieri dovrebbe insegnarci qualcosa. Soprattutto suggerendo a molti dei nostri riformatori in servizio permanente effettivo che i sistemi elettorali volti alla governabilità con danno estremo della piena rappresentatività non sono la risposta migliore.

Certamente anche oggi risentiremo il coro di chi si compiace argomentando che il voto consente comunque di governare e decidere. Il tempo dirà.
Trump, con la consueta eleganza, ha twittato la sua esultanza promettendo un accordo commerciale tra Stati uniti e Gran Bretagna quale non c’è mai stato.
Un contrappasso. Gli Stati uniti nascono come colonia inglese, e combattono per l’indipendenza contro la madrepatria, potenza imperiale.

Oggi, escono dall’Europa anche per il miraggio di riconquistare la perduta grandezza. Ma l’unica prospettiva realistica è quella di diventare una colonia degli Usa, potenza imperiale.

MASSIMO VILLONE

da il manifesto.it

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