La «vita comune» rilancia il desiderio

«Sul piacere che manca» del filosofo Paolo Godani, edito da Einaudi

Il pensiero di come dissequestrare le vite dal commando armato del capitalismo estrattivo occupa, a vario titolo, l’agire filosofico del presente. E questa è una notizia importante: c’è una intelligenza che immagina la liberazione, niente è dunque perduto, nessuna strada sbarrata. Sul piacere che manca, etica del desiderio e spirito del capitalismo (DeriveApprodi, pp.159, euro 13) è l’ultima riflessione sul tema del filosofo Paolo Godani, impegnato da tempo a ragionare sulle armi da affilare «per distruggere la gabbia», come cantava Gianfranco Manfredi.

E come nella canzone di Manfredi, che ci tormenta di dolcezza ogni volta che ripete «ma chi l’ha detto che non c’è?», anche nei lavori di Godani c’è questa tenerezza commossa di chi, al fondo dei concetti, trova sempre l’irriducibile potenza della philia, o di una «vita comune», come si chiamava il suo precedente lavoro, in cui l’individuo si pensa relazione e non proprietà come l’uomo triste di oggi.
«Eesiste una politica epicurea», ci dice alla fine di un lavoro intelligente nel quale pazientemente prende la macchina desiderio, come da definizione enciclopedica alla voce Deleuze-Guattari, e la smonta da tutti i lati per tentare di salvarla dalle oscillazioni della mancanza e della soddisfazione, dalle sorti della vittoria e della sconfitta. Per isolare in essa il nucleo essenziale dai capricci delle possibili forme del desiderio, dispiega il concetto di piacere: è «senza pretese e non manca di nulla, già sempre soddisfatto. Nel tempo che si perde nell’amore, nello studio, nella rivolta».

Primo passo: il diritto all’ozio. Muovendo dal lavoro di Paul Lafargue del 1883, ricordando il tetro avvertimento di Max Weber sui modi d’essere del capitalismo capace di «estorcere la laboriosità senza dover ricorrere a premi ultraterreni», pacificando i detrattori del 68 sulla assoluta consapevolezza di non essere mai caduti nella trappola di chi confondeva l’anno in cui la bellezza abitava le vie con la trappola liberista del «godi continuamente», scagliandosi contro «l’identificazione surrettizia tra assenza d’opera, oziosità e assenza di scopo», Godani afferma il rifiuto del lavoro come strategia assoluta di lotta. Meglio, come precipitato della politica epicurea: se il piacere supera il desiderio per essere piacere di vivere, senza oscillazioni, senza necessità di affermazioni esogene, è perché «la felicità del plebeo non sta nel conquistare la società».

È il passaggio politico di Godani: «l’etica del lavoro che ha avvelenato generazioni di comunisti è un’etica che dirige gli investimenti del desiderio verso il lavoro». Con, a sostegno, il corollario di paradossi noti alla letteratura, tra i quali forse il più bello: gli operai affamati che reclamano l’impiego, gridando «non è la fame, ma la passione del lavoro che ci tormenta!».
Come non collegare questa formula all’inoperosità di Agamben? Qual è il passo che lo supera o che lo attraversa? Che la vita immaginata da Godani non si interessa tanto del proprio essere nuda ma si occupa del suo essere, e da subito, felice. Di una felicità che rimanda a tante altre costellazioni di visioni. All’acquiescentia in se ipso di Spinoza ovvero la contemplazione della potenza d’agire. O all’estasi di Santa Teresa, che gode dell’apparizione della parte migliore di sé (quanta immanenza nel mistico, a volte…).

Ridere e filosofare. Vivere come i gigli nei campi, che sono gigli senza averne dovuto tessere il progetto. Costruire il mondo, secondo la citazione di Kojéve, «come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni tessono le loro tele». Perché «ogni produzione va riportata nell’alveo di quell’esercizio senza scopo delle nostre facoltà, che è la vita stessa». Disinnescare i tranelli della competizione, rispetto ai quali bisogna ammettere di avere pochi anticorpi. Smantellare la pratica della solitudine, che relega l’altro ad abitare solo il tempo del confronto, attraverso la moltiplicazione dell’amicizia, «testimone concreto dell’eguaglianza radicale di chi intende non cedere alle lusinghe dell’ambizione». Immaginarsi il ridere come l’atto opposto all’avere paura. E pensare che l’unica condizione per godere della vita è aderirvi.
Bastasse così poco per gabbare il nemico, dicono gli infelici ai quali è difficile togliere ragioni di questi tempi. Resta di questa ricostruzione minuziosa ed elegante di una letteratura filosofica impegnata tutta a rispondere alla domanda delle domande, «perché si sta al mondo?», la suggestione che non si vive per fare il servo, che si vive per godere della vita. Non si contratta su quanto devo cedere del mio tempo al moloch della produzione per lo stesso motivo per cui non si contratta sul proprio diritto di vivere. Che si deve pensare, per Godani, come assoluto e libero.

GIOVANNA FERRARA

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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