La sinistra che difende solo rom e negri

“La sinistra non fa altro che difendere i rom e gli extracomunitari”. Questo ultimo termine, un po’ sceso nelle classifiche del linguaggio razzista involontario (o volontario dal “volto umano”...

“La sinistra non fa altro che difendere i rom e gli extracomunitari”. Questo ultimo termine, un po’ sceso nelle classifiche del linguaggio razzista involontario (o volontario dal “volto umano” della tolleranza come concetto positivo…) ogni tanto torna in voga: definisce una complessità di differenze che, del resto, il razzista non vuole vedere e quindi livella, appiattisce sotto il peso dell’indistinguibilità voluta.
Dunque, la sinistra, da qualche tempo a questa parte, è costretta a rincorrere la destra sul terreno dei diritti umani, civili. Alcuni dicono che tralascia di difendere quelli sociali: il lavoro, la salute, le pensioni, la scuola e così via. Altri affermano che proprio si è dimenticata dei lavoratori, dei disoccupati, e che parliamo solo di “negri e rom”.
C’è un che di verità in tutto ciò: nei trent’anni di involuzione berlusconiana del mondo politico, hanno smarrito progressivamente il loro ruolo sia i partiti progressisti sia i sindacati ed anche le associazioni culturali di sinistra.
Tutto un mondo che guardava all’uguaglianza come ad un valore supremo, di riferimento, necessario per consolidare sempre meglio l’impianto costituzionale mai veramente applicato ha perso i punti di contatto con quel popolo che guardava a lui come all’unica speranza possibile per migliorare le vite di tutti: per prime quelle delle lavoratrici e dei lavoratori, degli sfruttati in generale.
Ed è vero: la sinistra moderata e quella comunista oggi condividono lotte civili che un tempo erano di secondo piano perché le stesse tematiche erano vissute non come elementi da cui sarebbero sorte le peggiori fobie antisociali e i migliori (si colga la voluta ironia del termine) pregiudizi verso il “diverso” sulla base del colore della pelle.
Il lavoro rimane al centro delle questioni sociali, è e deve essere il perno attorno al quale ruota l’attività di un partito comunista e anche quello di un partito, diciamo così, di stampo socialdemocratico (per usare quelle terribili categorie novecentesche che fanno inorridire molti “modernisti”).
Ma la grande epopea delle lotte proletarie per il miglioramento delle condizioni di classe sembra essersi fermata agli anni ’90, proprio in coincidenza con l’ascesa del mito dell’uomo che si è fatto da solo, del berlusconismo – craxismo rampante, di un capovolgimento dei valori popolari di riferimento senza bisogno di mettere in pratica riforme costituzionali stravolgenti la Costituzione stessa.
Il piano di ridimensionamento della democrazia è riuscito proprio grazie all’utilizzo degli strumenti democratici. Paradossalmente, una tirannia non consente di essere utilizzata per essere cambiata a proprio piacere e in senso più tirannico o diversamente tirannico.
Una democrazia, invece, offre il terreno della libertà come base su cui poggiare anche il contrario della ricerca della libertà stessa o della sua conservazione.
Per questo, la sinistra e il lavoro oggi sono due concetti che non è detto che viaggino di pari passo. Non si pensa alla sinistra pensando ai lavoratori. E’ vero: si pensa alla sinistra quando si vedono migranti, rom, sinti attaccati dalla spregevole e crudele propaganda della destra. Si pensa alla sinistra comunque sempre in chiave di espressione umanitaria e di umanità; persino i detrattori si riferiscono così a noi di sinistra: “buonisti” ci chiamano. Dovrebbe essere dispregiativo: invece a me non fa questo effetto. “Buonisti”, “cattivisti”, neologismi cacofonici che dimostrano il deterioramento dei rapporti sociali prima di tutto in seno alla società stessa, nonostante la resistenza di qualche gruppo di coraggiosi comunisti che non cede, che esiste, che resiste e che insiste.
Rimane il punto di cui all’inizio di questo discorso: l’apparenza e la sostanza.
Sarebbe un torno alle nostre radici culturali e sociali negare la lotta dei diritti civili in nome di quelli sociali. Qualche cosiddetto “rossobruno” ci prova: bisogna lottare contro il grande capitale e tutto viene di conseguenza, sostiene.
Meccanicisticamente parlando, quindi su un punto prettamente filosofico (magari anche scientifico) e marxista, ciò può anche essere vero.
Ma possiamo aspettare che riprenda vigore la coscienza di classe per avere un avanzamento anche di quella civile e morale?
Possiamo davvero ritenere che la lotta di classe, oggi impercettibile e invisibile, atomizzata, resa particolare invece che generale, decontestualizzata da un ambito continentale e anche nazionale, resa quasi lotta cittadina, comunale, da Medioevo delle botteghe e dei mestieranti, sia il presupposto per la rinascita culturale delle cosiddette “masse”?
Che sia la condizione sociale ad ispirare la coscienza umana è evidente. Almeno dovrebbe esserlo…
Ma oggi tocca a noi comunisti mantenere vive se non altro i concetti su cui si ispira una diversa visione della società e una lotta conseguente nel sociale: dalle fabbriche ai cantieri, si sarebbe detto un tempo…, dalle marine alle miniere.
Vecchie strofe di canzoni che è bello ricordare ma che non ci consegnano un entusiasmo che molti stanno perdendo, sotto il peso di una vittoria dell’individualismo esasperato dal liberismo unito al protezionismo nazionalista, alla difesa della proprietà privata in tutto e per tutto contro tutto quello che è poco riconoscibile come uniforme al contesto in cui siamo abituati a vivere.
Dunque, siamo l’ultimo baluardo. L’ultimo avamposto o retrovia: vedete voi, come più vi piacerebbe definire una sinistra comunista che alimenta almeno l’Idea, con la “i” maiuscola, mantiene vivi dei valori che la società non riconosce, esecra, scaccia, respinge e considera nocivi per la libertà singola, per il primato italiano su tutto, per la nazione sovrana come se fosse altro dal mondo intero.
Non esistono diritti di serie A e diritti di serie B. Ma non può nemmeno esistere una sinistra senza un terreno di uguaglianza su cui svilupparsi e su cui far sviluppare le lotte. Siamo in un circolo vizioso che sarebbe anche risolvibile da qualche equazione matematica. Marx ci sarebbe riuscito. Ma anche il Moro avrebbe convenuto che il capitalismo accetta l’immoralità come forma di costruzione di una pace sociale impossibile.
Anzi, fa della crudeltà e del pregiudizio un nuovo solco dove seminare la divisione tra i proletari moderni, renderli nemici, fieramente tali, convinti che il ritorno agli stati nazionali sia oggi, in tempi di mondializzazione e abbattimento dei confini, la salvezza dell’identità. Se poi si mangerà pane e cipolla, pazienza. Almeno avremo preservato la forma…

MARCO SFERINI

26 luglio 2018

foto tratta da Pixabay

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