La parola d’ordine è una sola: “Accontentatevi!”

La parola d’ordine è una sola: “Accontentatevi!”. Meglio poche briciole di niente. Peccato che in campagna elettorale sembrava che le pagnotte surclassassero nettamente le briciole di oggi. Ma i...

La parola d’ordine è una sola: “Accontentatevi!”. Meglio poche briciole di niente. Peccato che in campagna elettorale sembrava che le pagnotte surclassassero nettamente le briciole di oggi. Ma i tempi sono mutevoli, anche nel giro di pochissimi mesi.
Il rischio che il governo del “cambianiente” possa apparire come un governo socialisteggiante, quindi vicino ai più poveri, agli sfruttati nel mondo del lavoro in ogni campo, in ogni modo, è grande. Non certamente per la parole di qualche esponente di destra che si affanna a denunciare l’essenza “marxista” del Decreto chiamato “Dignità” (le parole hanno un peso… sempre); semmai il pericoloso fraintendimento è tale in potenza perché lancia parole d’ordine che non corrispondono alla realtà dei fatti.
Promette dignità, ma già come l’onestà, la dignità non è un programma politico ma lo diventa solo se si bada all’interesse pubblico che, per antonomasia, è anche interesse del singolo.
Promette il superamento del “Jobs act” renziano ma non reintroduce quell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (la “Legge 300) che proprio la controriforma del lavoro messa in atto dal PD (e da forze tecnico-liberiste) ha spazzato via.
Promette disincentivi per quei padroni che delocalizzano, penalizzazioni per chi rinnova troppe volte i contratti a termine, ma non supera la precarietà, non mette una linea di demarcazione tra l’ieri-precario e l’oggi-precario.
Interviene sul costo del lavoro, almeno questo è il proposito, ma ancora si deve capire in che senso: ridurlo per promuovere investimenti da parte degli imprenditori, assegnandogli un ruolo di ammortizzatore padronale, oppure ridurre il valore del salario per una qualche logica competitiva di stampo prettamente economico?
Nelle intenzioni del “Decreto Dignità” non c’è nessun rilancio del pubblico, nessuna rivalutazione del contratto a tempo indeterminato e, quindi, ciò che prevede è un aggiustamento degli eccessi liberisti del Jobs act, del falcidiamento che ha provocato in tema di diritti sociali, ma non è una inversione di tendenza, il fenomeno, insomma, di una nuova politica economica di governo che possa dire di voler chiudere con la stagione del lavoro variabile dipendente del livello di produttività.
E’ evidente che questa ultima caratteristica politica è tipica di qualunque governo che non abbia radici nell’egualitarismo di sinistra, nell’anche solo timido socialismo democratico di vecchio (o nuovo) stampo.
E’ tipica perché connaturata al capitalismo stesso, ad un sistema che le forze comuniste e di alternativa devono continuare a criticare senza se e senza ma, sottolineando la contraddizione che interviene tra il dire e il fare di un esecutivo che può dirsi e apparire “sociale”, del resto come apparivano tali anche regimi di vario colore autoritario dispersi per l’universo mondo e in differenti epoche storiche piuttosto recenti.
Il multiformismo politico del governo sembra essere, dunque, il tratto caratteristico non evitabile dalle forze  che lo compongono per poter anzitutto mantenere un consenso popolare necessario, puntando su una rivitalizzazione delle speranze dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati attraverso micro-interventi su un impianto complessivo di trattamento liberista del lavoro che non cambia affatto.
Eppure in campagna elettorale i Cinquestelle avevano detto chiaramente che avrebbero reintrodotto l’articolo 18, che avrebbero spazzato via il Jobs act, che avrebbero rivoluzionato la politica e la vita sociale italiana.
I margini di manovra, peraltro mal digeriti dalla Lega, sono quelli di piccoli correttivi che consentono molta propaganda in termini di tutela sociale ma, alla fine della fiera, il “Jobs act” rimane e la precarietà con esso.
Con, in aggiunta, le rassicurazioni del presidente del Consiglio Conte verso Confindustria: “Non siamo contro voi“.
Ciò spiega molto meglio il tutto. State tranquilli: poco cambierà, nulla sarà stravolto, ma vi diranno che poco è meglio di niente. La peggiore logica classista per dire: accontentatevi, intanto il sistema non lo possiamo, non lo potete cambiare.
E’ la mediazione massima tra liberismo leghista e pseudo-socialismo pentastellato che fa gridare ai “comunistelli” i giornali della destra.
L’illusione che qualcosa si muova sul piano delle conquiste sociali è il pericolo maggiore: ritenere che la maggioranza giallo-verde abbia la volontà e le qualità politiche per intervenire nella destrutturazione dei diritti sociali è il rischio che corre una massa popolare persuasa da una martellante campagna sul “salario minimo” per legge mentre i dati reali ci dicono che su 100 contratti stipulati sono soltanto 4 quelli a tempo indeterminato e che, dunque, la precarietà rimane l’azionista di maggioranza dell’incertezza per il futuro delle giovani generazioni e di drammaticità per gli ultra quarantenni.
Nessuno nega che il tentativo di Di Maio sia quello di intervenire su un tema fino ad ora tabù per qualsiasi riformatore. Ma questo tentativo non può essere presentato come una politica sociale, che modificherà dunque lo stile di sopravvivenza di milioni di lavoratori in uno stile di vita.
Eppure l’operazione abbellimento del quasi-niente è già iniziata e andrà avanti per molto tempo…

MARCO SFERINI

4 luglio 2018

foto tratta da Pixabay

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