La crisi delle banche e la politica del servilismo governativo

Ancora una volta il sistema dei fatti o i fatti del sistema, a seconda dei punti di vista, ha creato le condizioni di una arrendevolezza del “governo del cambiamento”...

Ancora una volta il sistema dei fatti o i fatti del sistema, a seconda dei punti di vista, ha creato le condizioni di una arrendevolezza del “governo del cambiamento” davanti alla matematica del fallimento possibile di una banca italiana, commissariata dalla BCE, e che – dicono tutti i più esperti tra gli economisti – potrebbe trascinare con sé, ad effetto domino, altri istituti di credito e generare quindi un pericolo per la tenuta complessiva del sistema.

Sacrosantamente vero: tra la propaganda politica di campagna elettorale e il tavolo di governo si genera sempre (o quasi) un abisso. Fare opposizione e governare sono situazioni tanto differenti da determinare per l’appunto contraddizioni come quelle cui stiamo assistendo in queste ore e che rischiano di portare il governo ad una delle sue prime formali crisi.

Il salvataggio di Banca Carige, nota il quotidiano di Confindustria, è speculare a quello di Monte dei Paschi di Siena: per dimostrarlo, “Il Sole 24 Ore” pubblica una comparazione tra il decreto fatto dal governo Gentiloni e quello fatto dal governo Conte: le normative in materia sono infatti simili e quindi non stupisce se vengano citate.

Ma uguali sono anche le prospettive che il governo attuale mostra di voler tenere in considerazione in caso di attuazione di un “piano B”: ultima delle quali rimane, come extrema ratio e come ultima cartuccia non proprio spendibile con in vista le elezioni europee.

Perché va bene definirsi “governo del cambiamento” (che non significa precisamente “governo rivoluzionario”…) e va bene anche assistere alla propria autoproclamazione di “avvocato del popolo” da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma come risulta evidente dalla manovra economica appena approvata dal Parlamento e dagli interventi per la tenuta del sistema creditizio italiano (e non solo), l’esecutivo conferma quanto dichiarava Salvini lo scorso fine estate e inizio d’autunno, quando affermava testualmente: “Se vogliamo governare a lungo, non possiamo far saltare i conti” e nemmeno le banche.

Una affermazione coerente per qualsiasi governo non tanto rivoluzionario ma nemmeno di qualche cambiamento timido rispetto al recente passato in cui una forza di centro con ispirazioni liberiste, fregiandosi dell’abito di una sinistra che le derivava più dalla sua storia ormai abbandonata all’analisi degli storici, liquidava il patrimonio sociale del Paese tanto in termini di tutela dei beni comuni quanto in protezione dei valori costituzionali atti al miglioramento della vita degli sfruttati moderni.

Per questo le obiezioni del PD agli atti del governo giallo-verde sono veri e propri boomerang che non solo tornano sempre indietro e dovrebbero ricordare agli esponenti democratici l’apertura “di credito” politico (ed anche economico) fatta con l’applicazione di normative che hanno incentivato l’avventurismo liberistico e non hanno fatto altro se non smantellare le ultime garanzie sociali, sindacali, costituzionali che proteggevano un mondo del lavoro martoriato e ridotto a nuovo schiavismo per milioni di proletari, di salariati resi variabile dipendente non tanto più dell’incognita produttiva quanto degli scambi borsistici e dei grandi affari continentali gestiti dalla BCE e dal prevalere in Europa di una economia, quella tedesca, che oggi mostra un rallentamento proprio nella crescita.

E’ di queste ore la notizia che la Bundesbank ha fissato all’1,6% il tasso di crescita di una Germania preoccupata per il conflitto tra Asia (leggasi Cina) e America in chiave di esportazioni e quindi di crescita della domanda soprattutto nel campo siderurgico e meccanico.

Dunque la grande Germania economica in una Europa preda di nazionalismi e di sovranismi protezionistici, rischia di diventare una locomotiva alimentata sempre meno da un carbone che scarseggia; rischia di perdere velocità e di non essere più quella sicura certezza per la BCE e per gli stati che aumentano le pressioni fiscali, si indebitano enormemente trasferendo i soldi dei lavoratori al finanziamento proprio del debito.

Un fenomeno non di questi mesi; un fenomeno ormai che da lustri percorre tutto il Vecchio Continente.

Dal canto loro, borghesi, banchieri e grandi padroni del mercato della finanza non hanno interesse a far cadere i governi: da Macron a Conte, da Sanchez a Merkel, da Tsipras a Orban.

Il problema politico, non del tutto ininfluente per il capitale padronale e finanziario, è che manca una continuità ideologica che unisca le diverse forze di questi paesi dell’Unione Europea in blocchi quanto meno contrapposti da scegliere alla bisogna – senza troppa preoccupazione del colore – per mantenere stabile il quadro di una pace sociale che non badi troppo all’assottigliamento sempre maggiore dei diritti sociali, al trasferimento dalle tasche dei poveri a quelle dei ricchi delle quantità di salario e di pensioni che vengono via via decurtate.

Fa gioco un po’ a tutti, banchieri nazionali e trasnazionali, forze politiche di maggioranza variamente disposte intorno a questi argomenti, eludere l’attenzione dai problemi primari dell’economia e della vita di ciascuno di noi e sovraccaricare di paure securitarie proprio noi tutte e tutti, rafforzandoci nella convinzione che la linea dell'”intransigenza” paghi e che 49 migranti debbano rimanere in mezzo al mare per mostrare che l’Italia si è ripresa la sua “sovranità”.

In termini di disumanità, sicuramente. In termini bancari, viste le lettere prima e i commissariamenti poi messi in pratica dalla BCE, la vera sovranità nazionale, popolare e (anti)sociale è tutta nelle mani di altri tranne che del governo italiano.

MARCO SFERINI

9 gennaio 2019

foto tratta da Pixabay

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