La crisi del Pdl e la rinascita della sinistra

Tre cose mi hanno colpito in merito alla vicenda della spaccatura del Popolo della libertà sul voto di fiducia al governo Letta. Tre cose che, per ora, possono prescindere...

Tre cose mi hanno colpito in merito alla vicenda della spaccatura del Popolo della libertà sul voto di fiducia al governo Letta. Tre cose che, per ora, possono prescindere dallo stesso voto di fiducia perché sono contestualizzabili nella frenesia delle dichiarazioni che si sono rincorse in una giornata, il 1° ottobre 2013, che in qualche modo rimarrà negli annali della politica italiana se non proprio della storia dello Stivale.
La prima è, con tutta evidenza, la fine della monarchia berlusconiana all’interno del Pdl. Non siamo davanti alle proteste di qualche segretario provinciale di uno sperduto angolo dell’Italia, ma alla presa di posizione dei ministri dimissionari tra cui spicca Angelino Alfano, insieme a quello che Giovanardi assicura essere non proprio un drappello di senatori, ma ben 40 esponenti dell’Alta Assemblea della Repubblica che sarebbero in dissenso rispetto alla decisione del Cavaliere nero di Arcore di negare la fiducia a Letta.
40 su 91 sono quasi la metà del gruppo senatoriale del Pdl. Se la notizia avrà la sua conferma numerica con la votazione che si prepara, lo sapremo a breve. Ma anche se fossero 38 o 30, si tratterebbe, nella storia del centrodestra italiano da vent’anni a questa parte, di una spaccatura sensazionale. A cosa sia dovuta veramente lo dirò tra poco. Per ora mi interessa sottolineare il fatto che Silvio Berlusconi ha perso il controllo del suo partito e, al momento, esiste una diarchia: Angelino Alfano (seguito dai ministri del Pdl e da nomi importanti come Fabrizio Cicchitto, Carlo Giovanardi, eccetera) per il “sì” alla fiducia e Silvio Berlusconi (con i fedelissimi Renato Brunetta, Renato Schifani, Daniela Santanché, Denis Verdini, Maurizio Gasparri, eccetera) per la linea dura del “no” alla fiducia.
La diarchia che si presenta oggi davanti a noi in seno al Pdl è completamente diversa da quella cui avevamo assistito al tempo della “rivolta” di Gianfranco Fini che era profondamente minoritaria e che ha condotto, infatti, immediatamente alla fondazione di Futuro e Libertà per l’Italia che non ha potuto avere spazio di rappresentanza per un centrodestra moderno con un Pdl così ancora abbarbicato e legato al Cavaliere senza se e senza ma.
In questo inizio di ottobre del 2013 assistiamo appunto alla fine dell’assolutismo e del fideismo più o meno in buona fede e vengono messi in campo dei “se” e dei “ma”.
I dissidenti guidati da Alfano a dire il vero sono almeno più sinceri rispetto alla teatralità del Cavaliere. La storiella dell’Iva e dell’Imu ha fatto il suo tempo e tutti sanno (o dovrebbero comunque sapere e rendersi conto) che se il governo cade non è per ragioni che concernono la tassazione indiretta delle merci, ma per problematiche inerenti la sorte giudiziaria del padre e padrone di un soggetto politico che oggi ha mostrato il fiato corto e che, in parte, si è messo fuori dal circolo dell’obbedienza fine a sè stessa perché percepisce – ecco le motivazioni della “ribellione” – che l’imprenditoria italiana ormai non fa più affidamento nemmeno per un centesimo di euro sul cavallo del Cavaliere. Il disarcionamento è stato deciso dai mercati già al tempo antemontiano, quando fu la fluttuazione dello spread a determinare la fine del governo arcoriano e l’inizio del proconsolato del professore bocconiano, benedicente il Quirinale e profondamente grata la Banca Centrale Europea.
Storia vecchia? Vedendo quello che accade oggi sembra invece tornare di tremenda attualità.
La ferita che oggi separa il corpo del Pdl una parte dall’altra nasce nel solco del rinnovamento proprio della parte politica egemonizzata da Silvio Berlusconi per vent’anni e che aveva visto le prime dissidenze nelle separazioni di Pierferdinando Casini prima e Gianfranco Fini poi.
I tentativi andavano tutti nella direzione di creare un’alternativa ad un centro e a una destra impresentabili persino per i capitalisti italiani ed europei. Mario Monti ha però fallito nel rappresentare politicamente, per terzo, questo tentativo. Tertium non datur, si potrebbe dire. Ma la verità è che non c’è stata una predisposizione divina dell’elettorato nel scegliere ancora il Pdl e Berlusconi come guida della parte moderata, conformista, conservatrice e padronale del Paese, ma un’ultima concessione di fiducia dettata anche dal desolante panorama politico che la borghesia incontrava guardandosi intorno: scegliere il Pd? E con quale garanzia di gestione dei più squallidi tentativi di sovvertimento dei diritti sociali delle persone più deboli?
Va bene, il Pd è anche un partito di riferimento borghese, di centro-sinistra (più di centro e molto molto poco di sinistra), ma per prevalere ha sempre bisogno di allearsi con forze che la classe dirigente e potente del Paese considera ostative ai piani di gestione delle crisi dei propri interessi dovute alle bolle speculative di questa o quell’altra parte del mondo.
Sel la rivoluzione non la vuole certamente fare, ma un governo che si ispiri anche minimamente ad una tassazione progressiva dei capitali, che metta in essere ad esempio l’ipotesi di una tassazione delle transazioni e che si batta contro determinati ambiti speculativi è sinceramente troppo anche per il più progressista dei borghesi e dei moderni imprenditori.
Così Berlusconi, pur incapace di potersi ancora accreditare come salvatore della patria del bengodi e delle quotazioni di borsa, è stato scelto come voto utile per battere un riformismo troppo debole. Forse serviva già allora un Matteo Renzi per convincere il ceto medio-alto italiano che, con lui alla guida del Pd, si sarebbe andati nella stessa rotta di Monti ma con una parvenza più “di sinistra”.
Parola abusata, violentata, ripetuta all’ossessione per indicare tutto quanto non era e non è berlusconiano.
Ora, la frattura che si è creata all’interno del Pdl può avere due vie da seguire: radicarsi e diventare altro dalla Forza Italia che il Cavaliere vuore riesumare per “guidare i moderati”, oppure rientrare nei ranghi senza far troppo rumore ulteriore e decretare il tanto celebre dramma shakespeariano “Tanto rumore per nulla”.
La seconda cosa che mi ha colpito rigurda l’incontrovertibilità di determinati fattori. E’ del tutto chiaro che, anche se i dissidenti alfaniani non dovessero proseguire in questo loro intendimento, non tutta la crepa creatasi potrà tornare ad essere ricomposta con un lavoro di restauro e di cesellatura anche perfetto. Ciò che si sta verificando è comunque un “fatto”. E i fatti, ce lo ricordava tanto tempo fa qualcuno di buon senso, hanno la testa dura.
Se ministri e senatori del Pdl hanno deciso di varcare questo Rubicone, di pronunciare il loro “alea iacta est”, vuol dire che hanno alle loro spalle la sicurezza di essere ben coperti su due lati: governativo (da Letta e Napolitano) e rappresentativo (da quel mondo della finanza e dell’imprenditoria che avrà garantito loro il cambio di voto in cabina per un prossimo futuro).
Non si compie un regicidio senza avere dalla propria parte le truppe migliori del regno. Bruto e Cassio spinsero i senatori al cesaricidio ma pagarono a Filippi.
Berlusconi potrebbe dire loro: “Ci rivediamo a Filippi”, ma sa che ormai il passo è faticoso, il respiro affannoso e incalza una sentenza che – su questo sono d’accordo con il parere del popolo americano espresso da Luttwak – è incomprensibile che non sia ancora stata applicata. La comprensione è un teatrino così penoso di gag, gaf e girotondi di scena da risultare indigesta per qualunque spettatore di buon gusto e di specchiata costituzionalità.
La terza cosa che penso sia rilevante è il silenzio del Pd. Rispetto per il “dramma” del Pdl. In realtà mi sembra che il silenzio di Epifani e degli altri rappresentanti maggiori democratici (altrimenti non si spiegherebbe la presenza in tv di parlamentari sconosciuti invece che del segretario nazionale o di membri della segreteria) sia dovuto alla linea: “Non disturbate il manovratore”.
Giorgio Napolitano ed Enrico Letta stanno guidando la loro locomotiva su binari che intendono mantenere lineari, per offrire la stabilità economica dell’Italia ai mercati europei e poter arrivare al semestre di presidenza italiano dell’Unione.
Il convinto europeista presidente del Consiglio non può non scorgere in questa occasione un elemento di traino per tutto un mondo economico ed imprenditoriale in sofferenza che pure chiede più deregolamentazione, meno tasse e condoni ad ogni piè sospinto.
E se si prova a ricordare che, dati di queste ore, la disoccupazione giovanile ha superato il 40%, allora ci viene propinata la lezioncina sull’esigenza della governabilità, della stabilità e del ricorso alle urne sono nel 2015.
L’omicidio politico del lavoro e del sistema pensionistico è stato proprio portato avanti in nome di questi sacri mostri, verità arcane e indefinibili che però tutti fanno finta di conoscere e condividere.
La eventuale scissione del Pdl non segnerebbe però meccanicisticamente la fine del sistema scoperto e creato da Berlusconi per esacerbare gli egoismi e distruggere ogni anche sola parvenza di solidarietà sociale e di comunità solidale. In ogni luogo istituzionale o extra istituzionale d’Italia.
Per questo serve, a fronte di tutto questo, creare la condizione imprescindibile per la ricomposizione di un campo del progressismo italiano dove la Sinistra Italiana (vera, di alternativa) si proponga come elemento riconoscibile di politiche assolutamente antitetiche a quelle proposte sino ad oggi qui da Pd, Pdl e Scelta Civica.
La fine della monarchia berlusconiana, forse, potrà lasciare andare il sipario anche sul ricatto del voto utile. Una destra moderna, liberale, senza il padrone sceso in campo nel lontano 1994 per salvare le sue aziende e i suoi interessi meramente privati dall’azione della giustizia, non avrà bisogno di un centrosinistra che la fronteggi.
Questa volta è possibile che un nuovo centro si formi e che una nuova destra veda la luce. Ma alla sinistra, se non ci pensiamo noi, chi ci pensa?

MARCO SFERINI

2 ottobre 2013

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