Jobs Act: la riforma non c’è

Nella bozza di programma del prossimo di governo contano più i punti assenti rispetto a quelli elencati. Negli otto punti, su ventisei, che riguardano l’impostazione economica e il lavoro...

Nella bozza di programma del prossimo di governo contano più i punti assenti rispetto a quelli elencati. Negli otto punti, su ventisei, che riguardano l’impostazione economica e il lavoro mancano la riforma del Jobs Act, quella del sistema previdenziale («Riforma Fornero»), l’abolizione della «Buona Scuola».

Erano le questioni principali dell’agenda elettorale dei Cinque Stelle prima della composizione del precedente governo con la Lega, quelle che hanno accelerato la scalata al 32 per cento insieme al cosiddetto «reddito di cittadinanza», in realtà una politica del lavoro ispirata a un workfare che non ha nulla a che vedere con il diritto fondamentale all’esistenza affermata in teoria, ma contraffatta nella realtà. Nodi così imprescindibili da essere stati abbandonati immediatamente. È stato il caso della scuola, affidata per 14 mesi al leghista Bussetti. Oppure di «quota 100», tutt’altro che una riforma della contestatissima legge previdenziale. Si è trattato di una nuova «finestra» riservata a chi ha 62 anni e 38 di contributi. In queste ore si è tornati a parlare di una «pensione di cittadinanza» per i precari, ben diversa da quella approvata con il «reddito». Non è pervenuta nelle bozze. Né vengono citati provvedimenti omeopatici spacciati per eventi epocali come il «decreto dignità»: una modesta manutenzione dei contratti a termine che non ha cambiato nulla nel precariato in Italia. È stato presentato da Luigi Di Maio come l’inizio del cambiamento del Jobs Act. In realtà, come ha dimostrato ieri anche Bruno Anastasia in un articolo su La Voce, ha cristallizzato l’occupazione a termine: i precari erano 3 milioni e 180 mila a luglio 2018 e sono 3 milioni e 209 mila a luglio 2019.

L’assenza di obiettivi strutturali è un programma politico. Per quanto riguarda i Cinque Stelle è normale, trattandosi di un partito-ameba che si adatta alle circostanze e giustifica il costante cambiamento delle prospettive con il suo essere trasformisticamente «post-ideologico». Per quanto riguarda il Pd, l’assenza rivela l’incertezza programmatica del nuovo corso. Pesa il ruolo decisivo che i renziani, testimoni della stagione precedente, esercitano sulla tenuta della nuova maggioranza. È un potere di interdizione rispetto alla discontinuità auspicata, ma ancora latitante. Contano anche le linee programmatiche enunciate dalla presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen il 16 luglio scorso. L’azione del nuovo governo rispecchierà l’evocata maggiore flessibilità di bilancio nel patto di stabilità (non il suo superamento), si appoggerà in qualche misura sull’indennità europea di disoccupazione e reddito minimo, ma non sono in discussione la deregolamentazione del mercato del lavoro né la tesi che la flessibilità aumenti la produttività, quando invece è il contrario. Ci saranno investimenti; una riduzione delle tasse sul lavoro dipendente; «maggiori risorse per il welfare» (scuola e università), ma il percorso resta contenuto nel perimetro della nuova ortodossia.

Siamo passati da promesse illusorie a un pulviscolo di provvedimenti occasionali. L’assenza di una vera discontinuità strategica sulle tutele e le garanzie – ripristino dell’articolo 18 e la sua estensione, allargamento dei diritti a tutte le forme di lavoro e del non lavoro – sarebbe colmata dal giusto compenso per le partite Iva, ma non da norme sui loro problemi previdenziali o sociali; da un decreto sui «rider» e non per tutto il lavoro di piattaforma digitale e per quello intermittente.

Per tattica, convenienza, esitazioni oppure decisioni nette, in ogni caso manca un serio ripensamento su quello che è accaduto in questo paese, perlomeno dal 7 marzo 2015 quando è entrato in vigore il Jobs Act. Pur consapevoli che in questo momento sono le prassi e la normale amministrazione che impongono un orientamento giorno per giorno, non è possibile trascurare gli esiti di almeno due pronunciamenti della magistratura che hanno scalfito l’edificio della riforma renziana per eccellenza. Prima ha dichiarato illegittimo l’articolo 3 che definisce in maniera rigida l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore licenziato ingiustamente. Pochi giorni fa è stato colpito l’articolo 10 della legge, quello che si occupa dell’esclusione dalla reintegra in caso di licenziamento collettivo, rinviando la materia alla corte di giustizia dell’Unione Europea. E’ significativo che il decreto dignità abbia riprodotto questi aspetti. Queste bocciature equivalgono alla bocciatura anche di questo specifico aspetto del decreto a cinque stelle. L’esigenza di un ripensamento strutturale sta nelle cose. Basta coglierlo. Ma, appunto, non lo si vuole cogliere.

Sulla probabile introduzione di un salario minimo le distanze sembrano prossime, ma l’incontro è ancora non scontato. I sindacati hanno posto l’esigenza di un salario minimo orario legale a cui aggiungere l’estensione dei contratti «erga omnes», cioè per tutti. In questo modo, oltre al salario, anche altri aspetti come le ferie diventerebbero per legge i minimi sotto cui non si può andare. Minimi determinati dalla contrattazione tra le parti. Questo approccio può funzionare rispetto al segmento di precariato più vicino ai contratti subordinati nazionali. Il confronto, abbozzato, con i sindacati potrebbe arrivare a una conclusione, una volta sciolto il nodo simbolico dei nove euro lordi o netti che dividono il Pd dai Cinque Stelle.

Anche in questo caso si ripropone il problema di una visione complessiva. Se non cambiano i criteri che hanno reso ormai strutturale la peculiare area della parasubordinazione, fino al punto da trasformare geneticamente lo stesso contratto a tempo indeterminato rendendolo paradossalmente un contratto subordinato rinnovabile, la stessa introduzione di un salario minimo può risultare ornamentale. Non tutti i problemi possono essere risolti dalle norme. Anzi, molto spesso le norme sono introdotte per alzare le fiamme dell’inferno. Ma certo è necessaria una visione globale per introdurre misure e capire quali possono essere gli effetti in un universo caotico come quello della precarietà che si è fatta sistema.

Il non detto più clamoroso, almeno nelle bozze circolate ieri, è quello del «reddito». Lo si può anche spiegare come l’acquisizione da parte del Pd della riforma dei Cinque Stelle. Sembra ormai acquisita l’evidenza: il «reddito» è la logica continuazione del «Reddito di inclusione sociale – ReI» del governo Gentiloni, solo più feroce con i disoccupati. Un’idea negata fino all’altro ieri. Compassionevoli con i poveri, ma esigenti nel disciplinarli in nuova forza lavoro precarizzata sul mercato.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

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