Il «rivoluzionario» che portò la finanza dentro le auto

Dieci anni al Timone. L’acquisto di Chrysler, la svolta del lusso. Ma per lui lavoro e Italia sempre secondari

Anche l’addio è stato rivoluzionario. Lo aveva programmato per tempo, come tutte le sue mosse. La sua formazione da filosofo hegeliano si spera glielo abbia fatto accettare più serenamente. Che Sergio Marchionne sia un rivoluzionario è riconosciuto da tutti, in primis da chi lo ha combattuto. Sono molti i pregi che gli vengono unanimemente riconosciuti: «un genio della finanza» è sicuramente il maggiore. Ha preso una Fiat sull’orlo del fallimento e ora Fca non ha debiti: a lui la famiglia Agnelli dovrebbe fare un monumento. Al manager canadese di formazione, teatino di origine («quando stava qui ad Atessa la calata abruzzese la sentivamo») con la residenza fiscale in Svizzera. Un’impronta globale che è un lascito: Fca è un’azienda olandese con testa e braccia soprattutto negli Stati Uniti. Figlio di un carabiniere, emigrato in Ontario a 14 anni: carattere spigoloso, piglio deciso, poco incline ai compromessi. Tutte ragioni per la mancata alleanza globale che risulta oggi il suo vero incompiuto.

Tutto iniziò a Pomigliano. Sergio Marchionne era amministratore delegato di Fiat da un anno. I suoi inizi lo fecero definire «manager socialdemocratico» dal sempre smentito dai fatti Piero Fassino. La svolta è stata meticolosamente pianificata con i legali del gruppo, primo fra tutti l’avvocato napoletano Raffaele De Luca Tamajo. La trovata era quasi geniale: sfruttare un referendum voluto da Rifondazione comunista per allargare la rappresentanza sindacale in modo da eliminare la Fiom dalle proprie fabbriche. L’articolo 19 dello statuto dei lavoratori la limitava ai soli sindacati «maggiormente rappresentativi». Il referendum del 1995 lo modificò prevedendolo per «i sindacati firmatari dei contratti». Uscendo da Confindustria e creando un Contratto collettivo di lavoro specifico (Ccsl) costruì il ricatto perfetto: o la Fiom firmava per più turni, il taglio delle pause, l’impossibilità di fare sciopero oppure sarebbe rimasta fuori dai cancelli.

In quella battaglia del 2010 il manager che inizia a sfoggiare i proverbiali maglioncini ebbe tanti alleati. Anche a sinistra. Sulla pelle dei 5mila di Pomigliano giocarono politici, vip, la qualunque. Tutti a spiegare che quella era la modernità, i diritti invece erano ferri vecchi. A lui si prostrarono Cisl e Uil – diventati da quel momento i sindacati «firma tutto» – perfino parecchi esponenti Cgil che proposero l’obbrobrio della «firma tecnica». Sulla sua strada Marchionne trovò solamente uno sparuto gruppo di giovani operai e un sindacalista appena eletto alla guida della Fiom: Maurizio Landini, che ieri ha voluto rispettare l’avversario: «Ci sono dei momenti che è meglio star zitti». In pochi giorni il sindacalista operaio trasformò la sua battaglia in un sussulto di dignità che rianimò un popolo intero, misurato nel milione di piazza San Giovanni del 16 ottobre. Marchionne se la vide brutta soprattutto nella notte di Mirafiori del 14 gennaio del 2011: l’estensione del modello Pomigliano alla storica fabbrica torinese passò col 54 per cento solo grazie ai colletti bianchi, gli operai lo bocciarono. Poi il 23 luglio 2013 è arrivata la Corte Costituzionale a far rientrare la Fiom in Fca, ancora in apartheid però per volontà dello stesso Marchionne.

A otto anni di distanza la Panda, l’auto che sarebbe tornata a Pomigliano dalla Polonia, è pronta a fare il viaggio opposto. Lo scambio «lavoro in cambio di diritti» ha già perso il suo presupposto. E fra cassa integrazione e contratti di solidarietà giunti alla massima durata grazie ai tagli del Jobs act (dell’amico Renzi, così come amici furono Monti e Berlusconi), migliaia di operai italiani rischiano seriamente di essere licenziati.

La prima rivoluzione di Marchionne è stata andarsi a comprare Chrysler. Sorella minore di Ford e General Motors e meno costosa dei tre brand di Detroit andati in crisi nel 2009, l’ha comprata direttamente coi soldi (pubblici) di Obama che la salvò dal fallimento. Una fusione molto particolare: un piccolo produttore italiano che acquista un gigante americano. E difatti il risultato è un ibrido globale: quel Fiat Chrysler Automobiles con acronimo rischioso in Italia. Ma il core business è il rilancio della Jeep, simbolo yankee pubblicizzato da Clint Eastwood, l’Italia diventa la provincia dell’impero, le radici sono anestetizzate dalla finanza.

La seconda invece è stata un aggiustamento in corsa, sebbene anch’esso meditato. Il mitico piano «Fabbrica Italia» non stava in piedi: la domanda di auto calava per la crisi, il ritardo tecnologico non permetteva di allargare i mercati. Ecco allora la «mossa del cavallo»: Marchionne decide di abbandonare la produzione di «utilitarie» rottamando la storia della Fiat e puntare sui segmenti più alti a maggior valore aggiunto e ricavi. La mossa ha funzionato in parte. I conti sono migliorati, il mercato Usa relativamente conquistato. La piena occupazione in Italia non c’è e non ci sarà.

La sua cravatta sapientemente celata sotto il maglioncino all’Investor Day del primo giugno è il suo testamento: la scommessa del «debito zero» l’ha vinta, quella del lavoro in Italia l’ha persa. È un particolare che alle agenzie di rating interessa zero e il neoliberismo globale ora ha il suo eroe da pontificare.

MASSIMO FRANCHI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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