Il regionalismo costituzionale e quello secessionista

La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un forte dibattito sul tema dell’autonomia differenziata delle Regioni, così come chiesto da Veneto, Lombardia, Emilia Romagna: al momento i tre...

La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un forte dibattito sul tema dell’autonomia differenziata delle Regioni, così come chiesto da Veneto, Lombardia, Emilia Romagna: al momento i tre disegni di legge che avrebbero dovuto recepire la bozza d’intesa nel merito sono stati bloccati, a causa di forti divisioni all’interno della compagine di governo.

Nel corso della discussione si è posto però il problema della natura costituzionale del provvedimento.

In una sua intervista rilasciata a “Repubblica” l’ex-presidente della Corte Costituzionale Onida ha interpretato il progetto come momento di attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, così come questo era stato modificato con la riforma del titolo V avvenuta nel 2001.

Un punto di grande interesse perché, esaminandolo, ci consente di tornare a verificare quel tipo di riforma eseguita all’epoca dal governo di centro sinistra con il solo scopo di “inseguire”, in una certa misura, la Lega (in allora “Nord”) sul suo terreno: una riforma costituzionale poi giudicata come svolta in maniera affrettata e incompleta.

In quest’occasione però cercheremo di sviluppare un discorso riguardante l’ipotesi che al riguardo dell’istituto regionale fu portata avanti in sede di Assemblea Costituente.

Un punto di premessa: alla Costituente le Regioni erano considerate come soggetti di “decentramento amministrativo”, questo indirizzo è stato poi modificato proprio nell’occasione della già citata riforma del titolo V, dopo una fase nella quale erano apparse forti le spinte alla “devolution”.

Il decentramento amministrativo è stato introdotto nel 1948 con la Costituzione Italiana, in cui viene esplicitamente citato all’articolo 5, come principio alternativo e opposto al principio dell’accentramento amministrativo.

Il più ampio decentramento amministrativo viene realizzato concretamente attraverso l’attribuzione delle relative funzioni a organi diversi da quelli centrali, ovvero gli enti locali. Sebbene costituzionalmente previsto, il decentramento avvenne in maniera graduale e progressivo, in tema si ricordano la legge 16 maggio 1970, n. 281, la legge 22 luglio 1975, n. 382 e il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112. ]

Le istanze regionaliste e federaliste avevano trovato ampia espressione nel Risorgimento italiano: Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari furono i principali sostenitori dello Stato federale.

Si ricorda, nei primi anni dell’Unità d’Italia, un progetto “Minghetti” di «discentramento amministrativo» che prefigurava l’istituzione di un ente intermedio tra Province e Stato, il «consorzio interprovinciale», le cui competenze comprendevano: 1) lavori pubblici; 2) scuole pubbliche superiori; 3) bonifiche fondiarie, caccia e pesca. Per quanto riguarda gli organi direttivi, come la provincia aveva un consiglio ed era guidata da un organo monocratico (il prefetto), così il consorzio interprovinciale sarebbe stato guidato da un «Governatore» con poteri effettivi, concepito come “delegato del ministro dell’Interno”.

Nel 1864, quando emerse la necessità di realizzare le prime statistiche nazionali sociali ed economiche, si dovette ovviare alla mancanza delle regioni. Il primo coordinatore della statistica nazionale, Pietro Maestri, superò il problema “ritagliando” delle circoscrizioni territoriali “secondo la loro coesione topografica”. Il Maestri, cioè, non eseguì il suo lavoro basandosi su criteri storici, ma effettuò un puro e semplice raggruppamento di province. L’autore, inoltre, sostenne che la propria ripartizione aveva valore provvisorio, nell’attesa che i criteri di ripartizione fossero meglio precisati.

Nel 1870 Alfeo Pozzi pubblicò il manuale L’Italia nelle sue presenti condizioni fisiche, politiche, economiche, monumentali, un libro per le scuole. Le 14 “Circoscrizioni di decentramento statistico-amministrative” elaborate dal Maestri divennero, dopo l’aggiunta del Veneto, 15 “Regioni“. Il lavoro di Maestri, che fino ad allora era stato diffuso solamente tra gli specialisti, divenne noto al grande pubblico. Però Maestri non era citato nel libro, quindi i lettori attribuirono a Pozzi anche l’ideazione delle 15 regioni. Il suo manuale incontrò un’enorme fortuna in tutte le scuole del Regno di ogni ordine e grado. In virtù del consenso che circondò l’opera del Pozzi, questa denominazione ebbe un riconoscimento ufficiale nel 1913: nell’Annuario Statistico Italiano 1912 (Roma, 1913) i 15 compartimenti di Pozzi vennero definiti per la prima volta “Regioni“.

Con il regio decreto del 13 dicembre 1923 il governo fissò le circoscrizioni elettorali in previsione delle elezioni politiche del 1924. Le regioni individuate furono 16, poi ridotte a 15 per l’inclusione del Sannio nella Campania.

La successiva legge elettorale (15 febbraio 1925, n. 122) abolì la suddivisione del territorio nazionale in circoscrizioni. Il regime fascista arrivò a sopprimere addirittura le autonomie locali, facendo dipendere i comuni e le province direttamente dall’esecutivo centrale.

Nell’assemblea costituente la seconda sottocommissione fu incaricata di elaborare gli articoli relativi all’organizzazione costituzionale dello Stato. Tra i suoi compiti figurò anche la stesura dell’elenco delle regioni. Ne furono eletti Presidente Umberto Terracini (PCI) e segretario Tomaso Perassi (PRI).

Quando la Seconda Sottocommissione iniziò ad affrontare l’argomento, si trovò davanti due opzioni distinte: a) un testo, redatto dal Comitato dei Dieci (un comitato di coordinamento), che riproponeva la ripartizione “tradizionale” (quella in uso dall’inizio del secolo e confermata in occasione del Referendum istituzionale del 1946, appena un anno prima l’inizio dei lavori); b) un insieme di mozioni relative all’istituzione di nuove regioni oltre a quelle “tradizionali”. Quelle più consistenti riguardavano.

  • al Nord: Friuli (si chiedeva l’autonomia dalla Venezia Euganea); Emilia appenninica (la parte del Ducato di Modena che si affacciava sul mare Tirreno, accorpata alla Toscana dopo l’Unità d’Italia); Romagna (autonoma rispetto all’Emilia);
  • al Centro: Sabina (si chiedeva l’autonomia dal Lazio);
  • al Sud: il Sannio (si chiedeva l’autonomia dalla Campania); il Molise (autonomo rispetto all’Abruzzo); il Salento (autonomo dalla Puglia).

Il risultato fu che, all’elenco delle regioni tradizionali, se ne aggiunsero quattro: Friuli, Emilia appenninica, Molise e Salento. Inoltre, “Romagna” fu giustapposto a Emilia per comporre la nuova denominazione “Emilia e Romagna”. Le altre istanze non superarono l’esame del Comitato dei Dieci.

Successivamente si aprì la discussione generale dell’Assemblea sul Titolo V. Tra le prime decisioni dei costituenti vi fu l’attribuzione dell’autonomia regionale alla Sicilia (e, di conseguenza alla Sardegna) e alla Valle d’Aosta.

L’Assemblea fu chiamata a votare il 29 ottobre Quel giorno, inaspettatamente, venne sottoposto ai deputati costituenti non l’elenco approvato il 31 gennaio, ma quello “originale”, cioè la versione precedente Il fatto sollevò una vivace disputa giuridica: una parte dell’Assemblea considerò illegittima la sostituzione operata dal Comitato dei dieci. Furono presentati due ordini del giorno: Targetti, Cevolotto e Grieco proposero la votazione dell’elenco delle 14 regioni a statuto ordinario; De Martino, Codacci Pisanelli ed altri proposero invece di non inserire in Costituzione l’elenco delle regioni, ma di demandarlo alla legislazione ordinaria

I regionalisti si schierarono con la prima mozione, individuandola come la più rappresentativa della ‘causa’ della Regione. Essi posero inoltre una pregiudiziale sull’ordine del giorno opposto. L’Assemblea votò sulla pregiudiziale: i sì prevalsero sui no per un voto.

In pratica, non fu introdotta nessuna innovazione rispetto all’ordinamento già esistente ai tempi della monarchia. Semplicemente, le “Circoscrizioni di decentramento statistico-amministrative” furono promosse a Regioni.

L’elenco delle regioni fu licenziato dalla Seconda sottocommissione il 30 ottobre.

Il 22 dicembre 1947 il testo fu votato dall’Assemblea, diventando così l’articolo 131 della Costituzione, che fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato De Nicola il 27 dicembre seguente, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 298, edizione straordinaria, dello stesso giorno, entrando in vigore il 1º gennaio 1948.

Le autonomie speciali furono coperte dall’art. 116 della nuova Costituzione italiana. La XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione previde che l’Assemblea Costituente avrebbe dovuto decidere in materia di statuti regionali speciali (oltre che di legge elettorale del Senato della Repubblica e legge sulla stampa) entro il 31 gennaio 1948. In virtù di questa previsione, il 26 febbraio 1948 vennero promulgate le leggi costituzionali contenenti gli statuti in questione, in deroga al procedimento ordinario di approvazione di una legge costituzionale previsto dall’art. 138 della Costituzione stessa: leggi costituzionali 26 febbraio 1948, nn. 2, 3, 4 e 5. La vicenda della Venezia Giulia, essendo parte di un difficile contesto internazionale, troverà soluzione solamente nel decennio successivo.

L’elenco delle regioni a statuto ordinario sarà aggiornato nel 1963, quando verrà aggiunto il Molise, che diventerà così la ventesima regione italiana (Legge Costituzionale 27 dicembre 1963 n. 3).

La scelta di allora fu sicuramente quella del decentramento amministrativo, opposta a quella dell’accentramento ma diversa da quella dell’autogoverno che in una qualche misura oggi si reclama e che, a giudizio, dei contrari porterebbe a rischio addirittura l’unità nazionale o almeno un’Italia (vestita da arlecchino).

Aver riepilogato, anche se in maniera molto schematica, il tipo di dibattito che sull’argomento si era svolto in Assemblea Costituente, può non essere stato inutile in questo momento nel quale appare molto forte (non soltanto su questa materia) il rischio di scelte avventate e ispirate da un’angusta visione politica dettata dalla propaganda.

FRANCO ASTENGO

17 febbraio 2019

foto tratta da Pixabay

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