Il presente insopportabile e il futuro invisibile di Michele

Michele ha scritto: “Ho cercato di fare del malessere un’arte“. Uno schiaffo ad una vita che non poteva più tollerare di vivere come la stava vivendo. Qualcuno si irrigidirà...

Michele ha scritto: “Ho cercato di fare del malessere un’arte“. Uno schiaffo ad una vita che non poteva più tollerare di vivere come la stava vivendo.
Qualcuno si irrigidirà e, dall’alto di una certa presunzione spacciata per saccenza, sentenzierà che Michele magari era divenuto debole, che non era abbastanza coraggioso, che si era lasciato scoraggiare e che aveva abbandonato ogni speranza, ogni positivo punto di non riferimento per gettarsi dentro una rassegnazione senza fine.
Eppure per tutto c’è una fine. Anche per i saccenti che oggi si sentono più forti di Michele che aveva trent’anni e che voleva soltanto poter immaginare il suo futuro da grafico.
Ha ragione Michele quando scrive che questa è una realtà che “non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni…“, perché ciò che consente “di fare strada” è solo la prevaricazione, la furbizia al posto della correttezza, la partenza falsata invece di quella che attende lo sparo del via.
Per molto tempo, nel solco del “mito americano”, ci è stato detto che il capitalismo è la società in cui tutti possono farcela: in cui arriva primo chi ha capacità, competenza e magari un pizzico di spregiudicata arguzia.
Non è così. E’ la società in cui chi è vicino ai poteri, di qualunque ordine e grado siano, ha maggiori possibilità di incontrare la “fortuna” (le virgolette sono di un triste rigoroso obbligo sarcastico) e di diventare quel “self made man”, quell’uomo che si fa da solo e che pensa di essere prodotto di sé medesimo e non della ricerca del profitto da parte di chi lo ha promosso anche alle più alte sfere di una azienda.
Michele ha espresso molto bene nella sua lettera: lui questo mondo non lo sentiva suo. Al punto da arrivare a dire: “…nessuno mi può costringere a continuare a farne parte…“.
La rassegnazione nega la vita e nega la lotta: la lotta è vita e viceversa. Ma quando ti batti per affermare le tue capacità e vedi ogni porta sbarrata, ogni finestra chiusa, ogni tua frase ributtata indietro, allora anche la voglia di riprovarci, di tentare nuovamente l’invenzione di un futuro si accascia su sé stessa e si rattrappisce.
Solo con i parametri della società che lo ha ucciso potete giudicare Michele un debole. Michele ha avuto forza e ha provato a comunicare fino all’ultimo il disagio personale e sociale che viveva.
E’ un disagio di tantissimi giovani, ed anche di gente di mezza età, che non sanno come sarà il loro futuro. C’è chi ha rinunciato a cercarlo e, come Michele, ha abbracciato la rassegnazione con la differenza che si lascia vivere in quella culla della sopravvivenza che è la disperazione quotidiana del tirare a campare senza farsi più domande.
Ogni risposta che cercherebbero sarebbe rispedita al mittente come una critica ingiusta verso una società che “se vuoi lavorare le opportunità te le dà”.
Questa frase l’ho sentita migliaia di volte: “Se non trovi lavoro è perché non vuoi lavorare”. Chi la pronuncia, di solito, ignora i meccanismi in cui si dimenano precari, disoccupati di medio e lungo corso.
E, comunque, anche se uno non volesse lavorare alle condizioni di sfruttamento imposte dal sistema, sarebbe condannabile moralmente? Per quale morale economica? Per quale morale sociale? Per quale reato?
Pretendere di non essere sfruttati è il delitto. Farsi sfruttare è la normalità. Quindi se non ti fai sfruttare sei un reo: reo di aver contestato l’andare “normale” delle cose, del sistema, di questa meravigliosa economia mondiale che si esprime nei diversi continenti come il migliore dei mondi possibili o come l’incubo peggiore per milioni e milioni di persone…
Non incolpate Michele di nulla, perché se leggendo queste mie presuntuose righe vi sarete fatti qualche domanda in più su come vivete, allora forse avrete anche iniziato a capire il disagio di Michele e la sua angoscia.
L’angoscia di chi vorrebbe solo poter vivere, essere felice non a scapito degli altri, come i padroni e i grandi signori della finanza e delle speculazioni borsistiche, ma felici per ciò che ci viene naturale fare. Felici per le caratteristiche che possiamo esprimere nella pratica quotidiana: quindi nel contribuire con le nostre attitudini al progresso sociale e non essere costretti a vivere una vita che non ci è propria, che ci è imposta solo per far felici un numero di poche centinaia di persone su sette e più miliardi di individui…
Caro Michele, hai chiesto, chiudendo la tua lettera di commiato alla vita, di non odiarti. Non solo non ti odiamo, ma ti avremmo voluto conoscere per farti sentire tutta la nostra vicinanza nel condividere il turbine di sentimenti contrastanti che ti attraversava ogni giorno.
Non ti odiamo, ti vogliamo bene anche se non ti abbiamo conosciuto, perché non possiamo non amare chi ha amato tanto il vero valore e volto della vita da privarsene…

MARCO SFERINI

9 febbraio 2017

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli