Il NO di chi fatica a sbarcare il lunario contro il SI’ dei ricchi e dei padroni

Un incontro – scontro molto tecnico da una parte e molto vuoto, propagandistico, affidato a vuote referenze legate all’importanza generica del concetto di “Paese”, di “sviluppo”, di “politica” e...

Un incontro – scontro molto tecnico da una parte e molto vuoto, propagandistico, affidato a vuote referenze legate all’importanza generica del concetto di “Paese”, di “sviluppo”, di “politica” e di “Costituzione” dall’altra parte.
La prima parte è quella rappresentata da Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, eminente giurista e costituzionalista, sempre equidistante dalle parti politiche ma ben connotato come difensore dei princìpi democratici, repubblicani, laici ed egualitari contenuti nella Carta del 1948.
La seconda parte è, invece, Matteo Renzi, presidente del consiglio dei ministri, che certamente “buca lo schermo” molto più del compassato professore, che si dispone nell’animo degli spettatori come colui che rifugge i tecnicismi delle leggi e tenta di spiegare con semplicità la riforma che propone al referendum del prossimo 4 giugno.
Il problema è che Renzi riesce a far scadere sul terreno della banalità assoluta ogni argomento che tenta di proporre: si appella a frasi del tipo: “Parliamo di Costituzione e non di politica”, quando Zagrebelsky fa cenno ad alcune recenti vicende che hanno portato alla proposta di un testo di riforma della Carta che è incomprensibile (vedasi a proposito l’articolo 70 della medesima riforma…), che dà vita ad un Senato dove i cento senatori saranno espressione dei consigli regionali.
La sola Lombardia ne esprimerà ben 14: quindi o funzionerà il Consiglio regionale lombardo o il Senato. Il dono dell’ubiquità non credo sia ancora appannaggio dei futuri senatori della Repubblica usciti dalle maglie della controriforma del governo.
Un Senato, afferma il costituzionalista emerito, che non viene quindi abolito ma che, semplicemente, viene sottratto al potere di delega dei cittadini. Il popolo sovrano eleggerà soltanto una Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica continuerà ad esistere per emanazione delle assemblee regionali, rendendo così probabili squilibri di poteri e funzioni: 630 resteranno i deputati e solo 100 saranno i senatori. I primi verranno eletti con una legge elettorale che assegna la maggioranza del 54% dei seggi ad un soggetto politico capace di ottenere al primo turno anche soltanto il 25% dei voti.
Più volte Renzi richiama Zagrebelsky a non dire che questa riforma spinge la Repubblica da parlamentare e democratica ad oligarchica. E’, con tutta evidenza, un argomento poco piacevole, quello che scopre i nervi di un fascio muscolare dolorante e che rivela le intenzioni di un esecutivo che vuole attribuirsi una maggiore ragione di intervento negli affari dello Stato e fare del Parlamento una subordinata del governo.
La stessa elezione del Presidente della Repubblica diventerebbe viziata dalla maggioranza assoluta dei deputati presenti facenti riferimento al partito di maggioranza “relativa” che siede sui banchi del governo.
L’indipendenza della più alta figura di garanzia assume così un profilo non più ben definito come oggi ancora troviamo descritto negli articoli che riguardano il Capo dello Stato: da Palazzo Madama, passando per Palazzo Montecitorio e finendo il tour oligarchico al Quirinale, queste istituzioni repubblicane rischiano di vedere compromessa la loro equipollenza e quell’equilibrio di rispetto dei singoli ambiti di intervento che è stato per sett’anni l’argine che ha retto ai colpi di destrutturazione di una Costituzione che è stata sempre l’anima buona di un Paese che non l’ha mai veramente sentita propria, difesa a dovere e, soprattutto, applicata con caparbia buona fede.
Dunque, Renzi bucherà anche lo schermo ma per esprimere soltanto fraseologie e concetti che vanno bene per la bassa propaganda stampata sulle fiancate degli autobus: “Vuoi meno politici, vota Sì”.
Ma dove si realizza questa incredibile bellezza populista di eliminazione dei politici? Da una rupe Tarpea? Con un ostracismo decennale in stile ateniese?
La riforma di Renzi e Boschi non diminuisce i politici ma ne moltiplica le funzioni: certo, i senatori passano da 332 a 100. Ma saranno senatori con la funzione di consiglieri regionali e sindaci. Dovranno scegliere se fare l’uno o l’altro nel corso della settimana e saranno consiglieri regionali e sindaci con qualcosa in più: l’immunità parlamentare.
Una attribuzione che non mi ha mai scandalizzato, a differenza di una larga maggioranza di popolo italiano, ma che è stata utilizzata per scopi completamente opposti alle ragioni per le quali era stata introdotta.
Dice bene Zagrebelsky su La 7 quando afferma che non sono le norme costituzionali a rendere farraginoso il percorso di formazione delle leggi ma sono, invece, i disaccordi tra le fazioni politiche.
Non è dunque la struttura normativa della forma-Stato ad essere sbagliata ma sono gli interessi privati in campo pubblico ad avere esacerbato le lacerazioni, creato separazioni e individualismi politici privi di significato se non ricondotti nel loro campo d’origine: l’oblio del pubblico interesse.
Il bicameralismo perfetto non è un “ping pong” dove le leggi rimbalzano da una parte all’altra dei rami del Parlamento per dispetto alla necessità di velocizzare la formazione normativa. E’ un meccanismo di protezione della democrazia, nata dopo un semplificazionismo esasperato che, infatti, si chiamava “dittatura”.
L’uomo da solo al comando l’abbiamo già visto, ventennalmente sperimentato e proponeva proprio meno discussioni e più azione.
Le stesse parole che oggi i rappresentanti del “Sì” ci propinano, affermando che noi del “NO” siamo dei conservatori, dei ferrivecchi, qualcosa d’obsoleto e di trascorso nel tempo, qualcosa che frena lo “sviluppo” del Paese.
Fidatevi. Lo dicono insieme a Marchionne, Confindustria e i grandi gruppi economico-finanziari-speculativi di questo mondo. Significherà pur qualcosa, ancora, se antifascisti, sindacati, sinistra vera (e non quella richiamata da Renzi, “la sinistra che vuole vincere”!) e organizzazioni sociali di varia natura sostengono il NO.
Per una volta dopo tanto tempo, questo referendum sta facendo coalizzare le care vecchie parti sociali in campo: da un lato i padroni e dall’altra gli sfruttati, i meno abbienti, i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati, gli arrabbiati contro un governo che ha fatto del liberismo sfrenato la sua bussola di marcia politica.
Non c’è astensione che tenga in questo referendum: non è consentito “non scegliere”. Bisogna difendere la democrazia formale e sostanziale, bisogna cacciare il governo Renzi da Palazzo Chigi e, per fare queste due cose, bisogna votare NO il 4 dicembre: diamo questa forte spallata all’arroganza, alla presunzione e alla voglia di presidenzialismo mascherato da progresso sociale, civile, morale ed economico proposto da un partito che di democratico ha soltanto il nome.

MARCO SFERINI

1° ottobre 2016

foto tratta da Pixabay

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