Il lavoro che cresce è quello precario: più occupati gli over 50 e a termine

Istat. Modesto aumento dell'occupazione a aprile 2017 e suona la grancassa del Pd e di Renzi in vista delle prossime elezioni. Ma i dati vanno decrittati: 225 mila occupati a termine in più ad aprile secondo l’Istat. Quelli «permanenti» sono 155 mila. Il 67% degli occupati in Italia sono precari. Meno 122 mila occupati in meno nella fascia anagrafica 25-49 anni, ovvero quella più «produttiva». Insieme ai giovani, i lavoratori adulti sono i più colpiti dalla crisi

La crescita dell’occupazione è del lavoro precario a termine ed è trainata dai lavoratori over 50 tra i quali aumenta anche la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione cala all’11,1%, il valore più basso da settembre 2012, ma aumentano sul mese gli inattivi (+34,7%), ovvero i lavoratori che non cercano più lavoro.

La rilevazione mensile dell’Istat conferma un mercato del lavoro con modesti saldi positivi: +94 mila occupati, soprattutto tra le donne rispetto a marzo, + 277 mila su base annua. Il tasso di occupazione generale, ovvero il perimetro entro il quale avviene questa crescita, resta ristretto: il 57,9%, una percentuale tra le più basse in Europa. Sintomo che non si produce nuovo lavoro, e dunque più posti di lavoro, ma aumenta il numero dei precariamente occupati.

I dati dell’Istat sono utili per capire la differenza: la crescita, infatti, riguarda i contratti a termine (+225 mila) e meno quelli permanenti (+155 mila), mentre continua il calo degli «indipendenti», le partite Iva. Non può passare inosservato il fatto che sui 380 mila occupati complessivi, 362 mila lavoratori hanno più di 50 anni. È un trend macroscopico a cui corrisponde a aprile un poco significativo aumento degli occupati tra i 15 e i 34 anni (+37 mila) e un buco nero tra gli adulti 35-49enni. Per loro si può parlare di un crollo: -122 mila occupati. E pensare che questa fascia anagrafica passa per essere quella «più produttiva» in un’economia capitalistica.

Questa asimmetria generazionale è dovuta a tre fattori. Il più importante è la riforma Fornero delle pensioni che ha aumentato drasticamente l’età pensionabile, obbligando i dipendenti a restare più a lungo al lavoro. Così facendo è stato impedito il subentro dei più giovani. Nel pubblico, questo vincolo è aggravato dal blocco del turn-over e dai tagli. In secondo luogo c’è la riforma dei contratti a termine di Poletti. Pochi ricordano l’abolizione della «causale» è stato il primo atto del governo Renzi, ancor prima del Jobs Act. Ciò ha permesso alla forma contrattuale dominante sul mercato del lavoro di essere prorogata infinite volte incidendo sul numero degli occupati registrati dall’Istat.

Una cifra può essere utile per comprendere la dimensione del fenomeno. Da gennaio 2015 il numero di occupati a tempo indeterminato è cresciuto del 3,64%, quello degli occupati a termine del 12,26%. Oggi in Italia il 67% nuovi occupati dipendenti è a termine. Questa precarizzazione della forza lavoro ha prodotto maggiori risultati, in termini di propaganda sui numeri dell’occupazione ad uso dei governi,rispetto al Jobs Act vero e proprio.

La nota «riforma» ha infatti prodotto risultati deludenti a fronte del gigantesco spostamento di ricchezza pubblica nelle tasche delle imprese. Ai 18 miliardi di euro spesi da Renzi in sgravi contributivi triennali per i neo-assunti con il «contratto a tutele crescenti» non corrispondono significativi risultati. Con il taglio degli sgravi sono diminuite drasticamente le assunzioni. Per l’Inps, a marzo, i contratti a tempo indeterminato veri e propri erano solo 22 mila. I contratti a termine, inclusi quelli stagionali, sono 315 mila. Questo è l’esito dell’assistenzialismo statale alle imprese. Liberisti, con i soldi pubblici: la cifra di un’epoca.

Come il sole d’estate, e la neve d’inverno, immancabilmente ieri è tornata a tuonare la grancassa di Renzi. L’aumento dell’occupazione ad aprile è stato celebrato con un messaggio d’ordinanza su twitter. «Vogliamo continuare: lavoro per tutti, non reddito di cittadinanza con sussidi e assistenzialismo». La polemica è contro il Movimento 5 Stelle che sostiene il «reddito di cittadinanza», in realtà un «reddito minimo». Letta in un contesto «decrittato», la dichiarazione prende tutt’altro senso: i sussidi e l’assistenzialismo sono alle imprese e il lavoro, tanto evocato, è in maggioranza quello precario.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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