Il drammatico crollo dell’industria italiana

Riprendiamo i dati dall’articolo di Claudio Conti apparso su Contropiano. Ogni qual volta i dati ISTAT segnaleranno il progressivo disastro dell’industria italiana sarà il caso di rammentare ragioni e...

Riprendiamo i dati dall’articolo di Claudio Conti apparso su Contropiano.

Ogni qual volta i dati ISTAT segnaleranno il progressivo disastro dell’industria italiana sarà il caso di rammentare ragioni e cause di questa situazione denunciando come da molto tempo non si ravveda volontà di affrontare la questione: errori di impostazione complessiva, pericolosa tendenza all’assistenzialismo propagandistico, deficit tecnologico strutturale, insostenibili squilibri territoriali.

Il peggior crollo produttivo dell’industria italiana dal 2009, quando stramazzò “soltanto” del -5%.

“Il fatturato totale diminuisce infatti “in termini tendenziali” (ossia considerando un anno) del -7,3%, con un calo del -7,5% sul mercato interno e del -7,0% su quello estero. Una conferma, oltretutto di due condizioni strutturali entrambe negative: a) il mercato interno non è in grado di assorbire la produzione per via dei bassi salari e dell’elevata disoccupazione, b) i mercati stranieri non “trainano” più, e quindi paghiamo pesantemente l’aver accettato di trasformare buona parte della nostra attività industriale in “produzione conto terzi” per le filiere tedesche, tutte orientate all’esportazione. Filiere che oggi pagano anche loro l’austerità imposta tramite l’Unione Europea (tutto il mercato interno continentale soffre alla stessa maniera) e i primi danni della guerra commerciale di tutti contro tutti aperta con il passaggio – causato da una crisi ultradecennale – dalla “globalizzazione” alla competizione globale.

I dati Istat pubblicati stamattina dovrebbero costringere tutti a rivedere le proprie idee – pregiudizi indotti, in realtà – su come funziona l’economia sotto il segno dell’ordoliberismo mercantilista di matrice teutonica. Ma non avverrà. Più semplice prendersela con la coglionaggine del governo di turno (che in effetti non ci sta capendo molto) o, come in modo inaudito continua a fare Confindustria, con il “costo del lavoro troppo alto” (siamo già arrivati al lavoro gratuito, che cavolo voglio ancora?).

Più in dettaglio. A dicembre 2018 il fatturato dell’industria è diminuito “in termini congiunturali” (cioè rispetto al mese precedente) del 3,5%. Nel quarto trimestre l’indice complessivo ha registrato un calo dell’1,6% rispetto al trimestre precedente.

Ma la situazione non è affatto passeggera. Se guardiamo infatti agli ordinativi – la produzione dei prossimi mesi – si registra una diminuzione sia rispetto al mese precedente (-1,8%), sia nel complesso del quarto trimestre rispetto al precedente (-2,0%).

Anche qui, il calo mensile del fatturato riguarda sia il mercato interno (-2,7%) sia, in misura più accentuata, quello estero (-4,7%). Peggio ancora per l’immediato futuro: la flessione degli ordinativi è infatti la sintesi di un incremento delle commesse provenienti dal mercato interno (+2,5%) e di una fortissima contrazione di quelle provenienti dall’estero (-7,4%). Chi aveva puntato solo sulle esportazioni (tutto il sistema industriale italiano) si trova oggi sull’orlo dell’abisso.

Non c’è peraltro un solo settore in controtendenza. A dicembre tutti i raggruppamenti principali di industrie segnano una variazione mensile negativa: -1,8% i beni di consumo, -5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e addirittura -9,7% l’energia.

Sempre con riferimento al fatturato annuale, tutti i principali settori di attività economica registrano cali tendenziali drammatici. I più giganteschi riguardano i mezzi di trasporto (-23,6%), l’industria farmaceutica (-13,0%) e l’industria chimica (-8,5%).”

Ecco il seguito per non dimenticare: il nostro moderno “Delenda Carthago”.

Si è discusso molto in questi mesi d’intervento pubblico in economia e alcuni hanno proprio accennato alla ricostituzione di un soggetto tipo – IRI, all’interno del quale concentrare le risorse di una rinnovata iniziativa pubblica in grado di avviare una ripresa di capacità industriale del Paese.

Rammentato il quadro generale nel quale ci stiamo muovendo caratterizzato dai vincoli europei, dall’enormità del debito pubblico e dalla presenza di un governo che da un lato si muove sul terreno dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza) e di una nuova ondata di privatizzazioni (cioè in pieno regime di confusione) è il caso di riprendere alcuni di questi temi.

La storia dell’IRI nelle sue tre fasi: dal 1933 l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in vita e non sciolto (com’era stato deciso anche all’ENI e al CONI,prima posti in liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche).

Poi dagli anni’70 la fase dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione d’imprese private realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.

Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’UE imposte di trasformare l’IRI in s.p.a.

Fin qui il Bignami ma è necessario toccare il punto di maggior interesse al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica.

La fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:

1) l’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;

2) la perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;

3) a fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;

4) si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.

Sono questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.

Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione.

Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale è avvenuto il tracollo della presenza industriale in Italia.

Come abbiamo ricordato e qui ripetiamo:

Oggi ancora una volta ci si sta muovendo in direzione osticamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro” oltre all’elargizione degli 80 euro.

Forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase artigianale.

Oggi verrebbe da scrivere che siamo ben infilati dentro il tunnel.

FRANCO ASTENGO

20 febbraio 2019

foto tratta da Pixabay

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