Il capitalismo incolpevole come distrazione di massa

Disgraziatamente stamane, dopo settimane di spontaneo allontanamento da trasmissioni televisive dove imperversano santoni e grandi teorici, nonché enormi pragmatici, della politica e dell’economia, sono capitato su un programma dove...

Disgraziatamente stamane, dopo settimane di spontaneo allontanamento da trasmissioni televisive dove imperversano santoni e grandi teorici, nonché enormi pragmatici, della politica e dell’economia, sono capitato su un programma dove un filosofo asseriva: “Non bisogna prendersela con il capitalismo per quanto accade. La democrazia non ha mai funzionato veramente. Bisogna prendersela con soggetti palpabili, tangibili, come le banche.”.
Non male come inizio di giornata: sentire un filosofo affermare che un sistema economico planetario è praticamente una quisquiglia, qualcosa di inesistente al tatto, di impercettibile ai sensi, quindi di non indagabile e non criticabile.
Le manifestazioni evidenti del capitalismo però sì, vanno criticate, attaccate: il sistema diventa trascurabile solamente perché non si può ridurre ad un particulare nell’universale.
Giuro che avevo fin qui ascoltato le più stravaganti articolazioni del pensiero sulle responsabilità dirette del sistema capitalistico nella vita di tutti gli esseri viventi, sul loro impoverimento: dalle più incredibili giustificazioni dello sfruttamento insito nell’economia di mercato fino all’accettazione “per il bene pubblico” di tutto ciò che ne era il contrario, per interesse ovviamente, ossia il privato.
Ma che il capitalismo fosse una entità così astratta e astraibile dalla vita umana (e non solo) sul pianeta Terra, mi mancava – come dicono i bambini che fanno raccolta di figurine dei calciatori – e difficilmente riesco a comprendere il senso di una affermazione del genere se non finendo per concludere che “un senso non ce l’ha” e che è una emerita sciocchezza.
Mi sarebbe piaciuto vedere il filosofo in questione in un confronto aperto, franco e diretto con quell’anche giovane Karl Marx ben tratteggiato nel film recentemente prodotto e uscito nelle sale.
Il Moro era tipo tutt’altro che mansueto quando si trattava di polemica politica, scientifica sul piano economico e filosofica su quello speculativo.
Lo avrebbe malamente apostrofato, magari dopo aver fatto un tentativo di mantenimento di un livello di educazione adatto ad un filosofo ed economista vero quale era egli stesso.
Noi oggi possiamo solamente prendere atto del fatto che alcuni intellettuali italiani ritengono l’effetto una causa e la causa una realtà al di sopra degli eventi, elevata ad una trascurabilità che ha davvero il sapore dell’incredulità per chi minimamente è avvezzo a relazionare ogni fatto con altri fatti e ogni accadimento con altri accadimenti.
Qui non si nega l’esistenza del capitalismo ma lo si esclude dai colpevoli come si sarebbe voluto salvare Luigi XVI di Francia nel percorso dal Tempio al patibolo con una incursione di qualche centinaio di realisti arrestati prontamente dal Comitato di Salute Pubblica.
Escludere il vertice del problema, farlo salvo, metterlo al sicuro da attacchi: il re per perpetuare una società dove i nobili erano i detentori del privilegio; il capitalismo per oscure convinzioni non definibili. Forse per concentrare il fuoco di fila della critica non sull’anticapitalismo ma sulla rabbia popolare che si ferma al livello dell’incoscienza dell’esistenza del sistema economico dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Tutto ciò deve apparire “normale”, immutabile: mentre le sue espressioni tangibili – le banche per prime – devono essere oggetto di attacco della furia popolare. Eh certo che è giusto prendersela con le banche, ma ciò non risolve il problema del perché esistano le banche, del perché esista il credito, del perché esistano i mutui e i prestiti a tassi fissi o variabili.
Questa economia è frutto di una serie di consolidati rapporti di forza economici retti da una rete minima di grandi possidenti di industrie che sfruttano la forza-lavoro e che, così stando le cose, sono parte fondante del sistema capitalistico che perdura da secoli e che si è esteso in tutto il mondo.
Scrive Marx: “Non sempre possiamo abbracciare la condizione per la quale ci sentiamo chiamati, perché in un certo senso i nostri rapporti con la società hanno già avuto inizio prima che noi fossimo in grado di definirli“.
Dunque siamo imprigionati dentro ad un contesto che condiziona le nostre vite ma, al tempo stesso, siamo in grado con la presa di coscienza del dove siamo (dentro al capitalismo) di alterare questi condizionamenti e di diventare “rivoluzionari” nell’infrangere non delle mere consuetudini con una lotta individuale e donchisciottesca, ma attraverso l’organizzazione, con il Partito che è il livello politico avanzato che deve oltrepassare quello della difesa sindacale (che sta peraltro su un altro piano di intervento sociale) e che deve essere composto dalle masse popolari degli sfruttati: lavoratori, precari, disoccupati e chiunque non sia padrone dei mezzi di produzione.
Il capitalismo, dunque, esiste in noi stessi, ci sta addosso nel momento in cui mettiamo al polso un orologio, inforchiamo un paio di occhiali, indossiamo un anello o una collana, calziamo le scarpe o leggiamo un libro. Tutto è merce e tutto è capitalismo. Le banche, caro filosofo, sono solamente la manifestazione più evidente delle transazioni di mercato, così come le borse, perché tramite questi luoghi fisici passa il flusso di denaro che, comunque, è sempre e solo una mediazione tra lo sfruttamento vero e proprio che si opera sul luogo di lavoro e la vita conseguente del proletario moderno.
La società borghese, quella dei possidenti, degli “imprenditori”, ha un punto di vista che deve marginalizzare le colpe del sistema capitalistico: può essere colpa di questa o quella banca se un mutuo è caro. Non del sistema.
La lotta di classe viene così depotenziata, ridotta ad una protesta simil al grillismo: urla contro la corruzione e i corrotti, il malaffare. Critica e urla verso il capitale che produce tutto ciò, no.
Ripartire dal linguaggio è essenziale se vogliamo evitare di farci turlupinare, magari anche in buona fede, da filosofi, economisti, esperti di politica e, naturalmente, esponenti di governo, sulle vere cause delle non-vite che viviamo.
Così, riprendendomi dallo stupore per quanto ascoltato stamane in televisione, vi lascio con un pensiero di Marx in merito: “Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini.“.

MARCO SFERINI

foto tratta da Pixabay

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