I palestinesi hanno il diritto di sfilare il 25 aprile

Il 25 aprile non è soltanto la festa della Liberazione e la celebrazione dell’atto finale della Resistenza al nazifascismo. Ogni anno dovrebbe richiamare, oltre alla storicità della memoria in...

Il 25 aprile non è soltanto la festa della Liberazione e la celebrazione dell’atto finale della Resistenza al nazifascismo. Ogni anno dovrebbe richiamare, oltre alla storicità della memoria in merito agli eventi italiani ed europei intercorsi nel periodo della Seconda guerra mondiale, anche tutte le forme di resistenza che nel mondo sono vive e si alimentano per la sciagura di avere innanzi un elemento prevaricatore, sia esso uno Stato o una organizzazione sostenuta da qualche potere costituito che opprime un popolo o una comunità.
Il 25 aprile, in Italia, deve poter avere questo significato e, per questo, deve poter essere vissuto pienamente da chi si sente giustamente erede di una memoria incancellabile, di un ripercorrere la storia del grande sterminio nazista operato contro gli ebrei, contro gli omosessuali, contro i Testimoni di Geova, contro i detenuti politici antinazisti, contro rom e sinti, contro apolidi e cosiddetti “asociali”… Sono terribilmente tante le categorie etichettate con i triangoli colorati, spesso sovrapposti perché nella vita si può essere ebrei ma anche comunisti, si può essere ebrei e al contempo omosessuali e così via…
Ma il 25 aprile deve poter essere vissuto, interpretato e condiviso da chi oggi è nelle condizioni di oppressione in cui si sono trovati, fin dall’epoca dell’imperatore Tito, tutti gli ebrei del mondo.
I palestinesi, i curdi, qualunque altra “minoranza”, qualunque popolo oppresso ha tutto il diritto di poter sfilare a Roma tra pochi giorni senza veti, senza sentirsi dire che, per via di questa partecipazione al corteo dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, sono gli “eredi del Gran Muftì” che incontrò Adolf Hitler.
Se questo è il metro di giudizio da adottare circa la sindacabilità sulla possibilità di partecipare o meno alla manifestazione romana (che non da oggi, purtroppo, è oggetto di frizioni di non poco conto), allora si dovrebbe rincorrere la palla della storia fin dai tempi in cui i cattolici erano, per fede o per forza, fascisti, dentro uno Stato che ha diviso da sé la Chiesa e le sue funzioni ma che ha avuto sempre relazioni ufficiali con le gerarchie ecclesiastiche.
Se non altro perché si era formato, dopo lo strascico della “Questione romana” dal 1871 in poi, un nuovo piccolissimo Stato, enclave in quel Regno d’Italia che dal 1922 era diventato fascista.
Il problema non è il Gran Muftì; il problema non è nemmeno la “Questione romana” ma, semmai, è la “questione palestinese” che da settanta anni è irrisolta e non trova una soluzione.
Un popolo lentamente muore in Palestina dove esiste uno Stato che ha un seggio all’assemblea delle nazioni dell’ONU come membro osservatore permamente. Il Dawlat Filastin non è uno Stato riconosciuto e, per questo, un popolo intero si batte dalle carceri israeliane alla Striscia di Gaza, dalla Cisgiordania a tutte le sedi internazionali che lo possono sostenere per poter vedere riconosciuta un giorno la dignità di vita che gli spetta. Così come sarebbe spettata sempre ad ogni popolo comparso, scomparso e ricomparso su questa disgraziata terra.
Sei milioni di palestinesi hanno diritto ad essere rappresentati in una manifestazione resistente, liberatoria, che ricorda il sacrificio di tutte e tutti coloro che combatterono contro la barbarie del Terzo Reich e della Repubblica di Salò, contro un asse di distruzione di intere nazioni, sistematicamente costruito e alimentato da politica e capitale, da capitale e politica per far prevalere una idea di supremazia razziale che ancora oggi non è scomparsa nel mondo.
L’appello è dunque questo: ebrei e palestinesi potete marciare insieme non dimenticando ciò che accade in Medio Oriente, anche oltre i confini israelo-palestinesi. Poco più in là altri popoli resistono ad attacchi da ogni parte: basti pensare ai curdi che sono stati l’anima di una liberazione enorme, di una autogestione militare, sociale, politica ed economica di un Rojava che sembrava perduto sotto i colpi del Daesh e sotto le bramosie delle potenze dell’una e dell’altra parte del pianeta.
Così resistono minoranze non solo etniche ma civili: resistono gli omosessuali in paesi dove la pena di morte è la consuetudine per il solo fatto di provare affetto e desiderio per persone del proprio stesso sesso.
Così resistono ancora i rom e i sinti sotto le mille ondate di razzismo e di pregiudizi che ogni giorno piovono dai giornali e dalle televisioni, da una “opinione pubblica” che si fonda quasi esclusivamente su frammenti di notizie, su false notizie, su notizie artatamente costruite per dirigere senso e consenso in determinate direzioni.
Così resistono i migranti che provano ad attraversare il mare: muoiono resistendo. Quelli che sopravvivono si trovano davanti al muro dell’odio occidentale per il non-conosciuto, per ciò che è differente, diverso, incomprensibile.
Per ignoranza, per paura, per superficialità ed egoismo.
Non fate che il 25 aprile escluda nessun resistente. Che escluda soltanto chi, naturalmente, non può esservi compreso: fascisti, xenofobi, intolleranti e violatori di Costituzioni che devono continuare ad avere al loro centro il potere del dialogo e non il potere sul dialogo. Prima il Parlamento, poi il governo. Solo così la Repubblica avrà ancora una parvenza democratica e potrà sperare di tornare ad esserlo, così come era nell’ispirazione originaria postbellica, quando il 1° gennaio del 1948 si voltava pagina senza buttare i capitoli precedenti del libro della storia d’Italia, d’Europa e del mondo. Per non ripetere quegli “errori” e quegli orrori. Per una vita degna d’essere vissuta.

MARCO SFERINI

20 aprile 2017

foto tratta da Pixabay

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