Election day, il costo del sabotaggio

Circa trecento milioni che si potrebbero risparmiare, ma chi li risparmierebbe? Solo lo stato centrale o anche i comuni, quelli almeno dove si andrebbe a votare per il consiglio...

Circa trecento milioni che si potrebbero risparmiare, ma chi li risparmierebbe? Solo lo stato centrale o anche i comuni, quelli almeno dove si andrebbe a votare per il consiglio comunale assieme ai due referendum della Cgil? Ci sono domande del genere dietro le incertezze sull’election day. Il costo del referendum infatti è tutto a carico del bilancio statale, quello delle elezioni amministrative ricade in parte sui comuni.
Sembra facile: chiamare e richiamare gli elettori alle urne a pochi giorni di distanza – il 28 maggio per i referendum e (pare) l’11 giugno per il primo turno delle amministrative – ha poco senso. Sfiora la follia se alla fatica per i cittadini (che in molti casi avranno anche un secondo turno per i comuni, il 25 giugno) si aggiunge anche il costo. Le spese che si potrebbero risparmiare unendo referendum e primo turno elettorale sarebbero quelle per gli scrutatori (almeno in parte) e per la sicurezza ai seggi (esercito e forze dell’ordine).

Sembra facile, ma è più facile scivolare nella follia, com’è successo nel 2016 per il referendum sulle trivelle, che il governo Renzi fissò in una data diversa dalle comunali per ragioni del genere: non si sapeva come ripartire i risparmi (quindi meglio non risparmiare), non si sapeva quanti scrutatori chiamare (le leggi ne prevedono quattro per le amministrative e tre per i referendum), non si sapeva da quali schede cominciare lo spoglio… Scuse. Il vero obiettivo del governo Renzi, allora, era lo stesso del governo Gentiloni, oggi: favorire il fallimento dei referendum per mancato raggiungimento del quorum. Tenere i quesiti referendari lontano dall’appuntamento con le urne per il voto amministrativo, allora, aiuta. L’anno scorso andò così, sulle trivelle il quorum non fu raggiunto.

Andò così, per la verità, anche nel 2009, l’unica volta in ci referendum abrogativi e voto amministrativo furono accorpati, grazie a una legge approvata in una settimana dal parlamento. I referendum elettorali fallirono lo stesso: meno del 24% di affluenza, oltre il 61% per il secondo turno della amministrative.
Oggi l’argomento che l’election day favorirebbe troppo la partecipazione e la Cgil – quando l’astensione nel caso dei referendum abrogativi ha lo stesso valore della partecipazione – crolla così come sta crollando l’affluenza nei comuni. L’anno scorso ai ballottaggi ha superato appena il 50%, cinque anni fa nei comuni che tornano al voto (Palermo, Genova, Taranto) si era fermata molto al di sotto. L’election day non può essere più una garanzia di successo per il referendum. Ma è sempre un bel risparmio.

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikimedia Commons

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Politica e società

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