Donald e Hillary, la scelta impossibile

Ho fatto le “ore piccole” per seguire in diretta i comizi finali di quelli che vengono spacciati come gli unici candidati alla corsa per la Casa Bianca. Ce ne...

Ho fatto le “ore piccole” per seguire in diretta i comizi finali di quelli che vengono spacciati come gli unici candidati alla corsa per la Casa Bianca. Ce ne sono, oltre alla Clinton e a Trump, altri due, ma l’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione è concentrata su democratici e repubblicani. Funziona così nella più grande democrazia del mondo, nel Paese esportatore della medesima, nella nazione che si ritiene guida di tutti gli altri paesi, esempio etico e politico, sociale e civile.
Ho fatto le “ore piccole” e ho ascoltato le dinastie familiari aprire la scena per Hillary Clinton: prima Chelsea, poi Bill. Parole legate ad un sentimentalismo di facciata per rimarcare la bontà della madre e della moglie, la sua fedeltà ai princìpi del focolare e quindi di rimando la sua completa dedizione ai valori della costituzione americana nata proprio in quella Philadelphia dove la candidata democratica ha scelto di chiudere la sua campagna presidenziale.
Poi è toccato alla fist lady uscente e al presidente uscente. Se io fossi uno sprovveduto elettore americano, privo di qualunque cognizione e di qualunque elemento giudicante fondato sulla conoscenza di determinati fatti della politica statunitense, avrei certamente letto nelle parole di Barack Obama una forma di convincimento superiore a quella di Bill Clinton.
Almeno il quasi ex presidente e comandante in capo degli Stati Uniti ha provato a fare un bilancio degli otto anni che ha trascorso alla Casa Bianca e ha chiesto un voto in continuità, un voto che leghi le riforme in campo sanitario, scolastico, la politica estera, quella ecologica e magari anche la mancata chiusura di Guantanamo al programma della probabile prima donna presidente della Repubblica stellata.
Hillary Clinton e Donald Trump: una scelta facile dicono molti dalle nostre parti. Come si potrebbe mai dare il voto ad un esagitato come il miliardiario costruttore di alberghi quando si ha a disposizione una persona affidabile, più volte segretario di Stato, conosciuta in tutte le cancellerie del mondo, come Hillary Clinton?
Non c’è dubbio che, almeno per un comunista, votare Donald Trump è impossibile. Ma è altrettanto impossibile votare Hillary Clinton.
E’ noto che è legata all’alta finanza di Wall Street e che, comunque, lo stesso “The Wall Street Journal” la critica da destra: nonostante tutto è ancora insufficientemente vicina alle pretese di difesa dei privilegi affaristici della borsa. Quella parte del suo programma che parla della tassazione per le società che fanno operazioni rischiose proprio a Wall Street o quelle multe previste per le imprese che delocalizzano fuori dai confini degli Stati Uniti sono un eccesso di socialismo, fumo negli occhi del grande capitale.
Bernie Sanders avrebbe fatto preoccupare maggiormente gli eleganti signori che si agitano nei corridoi della Borsa. Ma il senatore ormai è fuori gioco e appoggia Hillary. Avrebbe potuto fare altre scelte? Probabilmente sì, ma se esiste un luogo dove la illogicità del “voto utile” fa presa sono proprio gli Stati Uniti d’America: votare Hillary per sbarrare la strada a Trump.
Persino Michelle Obama l’ha ripetuto pari pari ieri sera a Philadelphia: ogni voto “di protesta” (leggasi dato dai sanderisti a Jill Stein o allo pseudo-libertario Gary Johnson) sarebbe un favore fatto a Donald Trump, la vera, unica minaccia per il mondo intero.
Eppure Trump, in questo scenario di immobile conservazione dei privilegi del mercato garantiti dall’appoggio di Hillary Clinton ai peggiori trattati intercontinentali sul piano economico, se vincesse diventerebbe paradossalmente un detonatore su questo piano. Ovviamente lo sarebbe anche per i diritti civili, per quelli del lavoro, privilegiando le classi ricche e non provando nemmeno a lambire l’ipotesi di alzamento del salario minimo che la candidata democratica garantisce come uno dei punti fondanti del programma.
Trump si mostra amico e alleato di Putin: concorda nel fare un passo indietro insieme alla Russia, nel non creare una sfida permanente da nuova guerra fredda tra le due potenze. Ma poi provoca la Cina quando afferma che vuole evitare lo “stupro” dell’economia americana da parte di Pechino.
Dal suo canto, Hillary Clinton è ambigua quando si tratta di comprendere il rapporto con Vladimir Putin: sembra non preferire una soluzione condivisa del conflitto latente tra Russia e Usa. Poi, sulla grande questione irrisolta del Medio Oriente si mostra invece tiepida con l’oligarca di Mosca.
Nessuno dei due candidati “non di protesta” ha le caratteristiche per garantire uno sviluppo sociale della politica americana e tanto meno dà alcuna garanzia sulla stabilità estera: tra l’autarchia e la promessa di “rendere nuovamente grande l’America” di Trump e la sicurezza della continuità di Clinton, forse potrebbe esistere una terza via, ma questa è molto lontana dall’essere presa in considerazione dal popolo americano.
Il sistema politico ed elettorale di compensazione dei poteri scelto dai padri pellegrini e dai costituenti coloniali non permette ad un “tertium” di entrare nella partita.
Così la candidata verde e libertaria Jill Stein è ignorata, esclusa dai giochi, anche se vi saranno decine di migliaia, forse anche centinaia di migliaia di americani che la voteranno senza per questo sentirsi gettare addosso ed accogliere la condanna del “voto utile” prima e la responsabilità dell’eventuale vittoria di Trump dopo.
Una vera democrazia lascia scegliere oltre due candidati sostenuti chi da una parte e chi dall’altra del grande capitale finanziario, dalle corporazioni delle armi, del petrolio, delle macchine, dell’informatica passando per Hollywood e per i concerti finali di Jon Bon Jovi o Bruce Springsteen.
Comunque vada, dunque, sarà un disastro. La vittoria di Hillary Clinton apre davanti a sé scenari di conservazione dell’esistente e di aggressività imperialista in politica estera.
La vittoria di Donald Trump consegnerà agli Usa il falso mito di una potenza che sarà costretta sempre più a fare i conti con altre potenze e che, se si chiuderà in uno splendido isolamento, forse ridimensionerà il suo carattere imperiale ma accentuerà quello di compressione dei diritti d’ogni sorta dentro i confini dei cinquanta stati.
Dunque, che cambi pure il presidente affinché nulla possa veramente cambiare.

MARCO SFERINI

8 novembre 2016

foto tratta da Pixabay

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