Dagli abbracci estivi liberal-riformisti ad una nuova cultura comunista

Fa caldo e si sragiona. Può capitare “un giorno di ordinaria follia” tanto nella vita quotidiana aliena dalla politica, vista solitamente in questi ultimi decenni come un elemento di...

Fa caldo e si sragiona. Può capitare “un giorno di ordinaria follia” tanto nella vita quotidiana aliena dalla politica, vista solitamente in questi ultimi decenni come un elemento di estraneità proprio a noi stessi nella realtà di tutti i giorni, quanto nella vita fatta di impegno politico, di impegno sociale, di impegno.
Non che le altre esistenze non siano “impegnative”, ma l’impegno politico, nell’attesa di poterlo reinserire tra gli “impegni consueti”, dentro un contesto di normalità, ne rimane per ora escluso.
E, quindi, può succedere che si convochi un’assemblea di piazza a Roma per dire che “Insieme” si ridà voce al popolo della sinistra e che si vuole rifare – chi in un modo e chi in un altro – una specie di centrosinistra di piccolo cabotaggio, e può altrettanto succedere che si vada ad una festa del Partito democratico e si incontri Maria Elena Boschi e la si abbracci.
Nulla di male. Anzi, mi stupisce che qualcuno trovi il fatto sorprendente. Ciò che è tale, sorprendente e anzi di più, è la dichiarazione seguente: “Qui mi sento a casa mia”. E’ una dichiarazione politica e non solo meramente domestica.
Andare alle festa del PD e dire di sentirsi a casa propria è come dire: “Eccomi qui, ci sto bene qui, mi sento a casa mia”. Appunto.
Questo è sorprendente (fino ad un certo punto) per chi dichiara di voler ricostruire la sinistra. Ma in verità ci sono distinguo politici che sono esiziali e che pregiudicano, nella loro piccolezza narrativa, comunque un cammino di dialogo verso la ricomposizione del progressismo italiano, fatto di differenti approcci e culture, ma rintracciabile nell’area molto indefinibile della non aggettivizzabile “sinistra”.
Giuliano Pisapia, dunque, alla festa del PD si sente come a casa propria, mentre quelli dell’MDP un po’ meno: alcuni proprio meno meno, altri meno, altri quasi meno.
Pippi Civati e il suo movimento Possibile vorrebbero dare vita ad una lista unica della sinistra alle prossime elezioni ma senza troppi intendimenti col PD. Mentre Sinistra Italiana fa la figura dell’intransigente, della “più a sinistra possibile” in questa mescolanza di posizioni.
Separata la posizione di Rifondazione Comunista che viene vista come quella indiscutibile da Pisapia (ed è giusto che sia così) in quanto esclude ogni possibile riavvicinamento al PD e all’idea di un nuovo centrosinistra.
E’ una nettezza che andrebbe apprezzata perché non gioca alla partita del posizionamento politico in virtù della maggiore rappresentanza parlamentare che, comunque, sarebbe necessaria in un Paese dove dei comunisti dovrebbe esservi nuovamente bisogno. E’ una chiarezza che sarebbe auspicabile anche da parte di Possibile e Sinistra Italiana. E tuttavia non si può non notare come sia difficile barcamenarsi in mezzo a questi scogli fatti di piccole o medie alleanze a seconda del grado di inclusione che Renzi deciderà di applicare ad una eventuale coalizione a guida del suo partito.
Di questo insano balletto abbiamo parlato, letto e discusso fin troppo in queste settimane: a partire dall’interpretazione data da Bersani, Scotto e D’Alema sull’assemblea del Brancaccio dove, come in tutte le assise convocate “dal basso” (che è anche in parte “un verso l’alto” non di dirigismo partitico, ma di dirigismo sociale e civico, perché comunque qualcuno che prenda in mano le redini della carovana deve esserci…) non possono non nascere strategie e tatticismi, quindi differenze visive sull’immediato e sul prossimo futuro elettorale.
Tutto rimane troppo finalizzato alle elezioni che, senza ombra di dubbio, sono importantissimo passaggio per un rilancio o una deriva ulteriore del progressismo e della sinistra di alternativa (specificazione voluta e dovuta).
Eppure il lavoro da fare non può essere soltanto programmato e legato al momento elettorale. La visione critica del sistema capitalistico deve tornare ad essere il centro della ricostruzione della sinistra.
E, duole dirlo perché appare esclusivista ma non vuole affatto esserlo (almeno nelle intenzioni culturali e politiche mie), senza un ritorno al comunismo, al movimento comunista, all’alternativa di società, all’analisi marxiana della medesima non si può costruire una critica sociale (singola e collettiva) che possa contrastare tanto le destre quanto i liberismi che si nascondono (nemmeno tanto velatamente) dietro a parvenze di sinistra formulate con paradigmi linguistici di una degenerazione populista degna del peggiore degli imbonitori.
Non posso individuare la responsabilità dell’abdicazione all’analisi marxista in questo o quel soggetto politico dell’oggi: andrebbe fatto un serio ritorno al passato per comprendere la assurda necessità del liberarsi di un “fardello” nominalistico (comunismo, comunista, marxista, classe, lotta di classe) che è la chiave di interpretazione di un oggi che non sapete più come definire.
I padroni li continuate a chiamare “imprenditori”: ma questo è il termine coniato dalla borghesia per definire in chiave positiva un ruolo antisociale. Padrone, invece, è colui che detiene i capitali, i mezzi di produzione e i lavoratori di qualunque condizione a lui subordinati. I salariati.
La parola “sfruttamento” è anch’essa scomparsa: tutte le forme dell’innominabile appena citato rapporto tra le classi borghesi e quelle… come le volete chiamare… povere, proletarie, indigenti, sono derubricate a forme di “modernità contrattuale” che, sì, persino gli economisti liberisti fanno fatica a mostrare come grandi conquiste sociali, ma che tuttavia vengono spacciate sempre come il “meno peggio”.
Troppa cultura sociale è andata al macero in questi decenni mentre i tatticismi politici ed elettoralistici prendevano il sopravvento. Il tempo passava, avanzava il grillismo per coprire a sinistra proprio quella voglia di riscatto sociale trasformata in voglia di semplicissima “onestà”, eletta a grande programma politico, e il comunismo, come “movimento reale”, dell’oggi, del quotidiano sentire sulla propria pelle lo sfruttamento e le ingiustizie, veniva deriso come ferrovecchio del passato.
Sono state tentate queste grandi strade della sinistra moderna, priva di aggettivi e di una cultura cui tanti dicono di fare rifermento ma evitano poi di abbracciare, perché dovrebbero dirsi “comunisti” o “marxisti”. Sono state tentate queste strade e non hanno sostituito l’innominabile cultura della ribellione anticapitalista con una nuova “narrazione” del sovvertimento delle classi dirigenti.
Solo l’addomesticamento della sinistra residuale, moderata e volta alla ricerca di un nuovo centrosinistra è stato il risultato finale.
Ben misera cosa, se si pensa ai proclami di tante assemblee, a primarie svolte con grande solennità nel nome del “cambiamento”.
Ma quando sparisce una visione di insieme dei rapporti economici, civili ed umani, viene meno la politica che ne dovrebbe derivare, quindi lo slancio romanticamente passionale fatto di consapevolezza della condizione sociale in cui ci si trova.
Viene meno la “coscienza di sé”. E nemmeno resiste tanto la “coscienza in sé”. Ma questa è un’altra storia, come si usa dire nelle trasmissioni televisive… Chissà se, recuperata un po’ di cultura comunista, ve la potremo a breve o un giorno tornare a raccontare.

MARCO SFERINI

25 luglio 2017

foto tratta da Pixabay

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