Baghdad avanza. Ma a Mosul lo scontro è tra Turchia e Iran

Iraq. Accuse al vetriolo tra Ankara e Teheran: al matrimonio senza amore in Siria fa da contraltare la competizione per la leadership del Medio Oriente. In mezzo si infila al-Sadr che presenta la sua road map post-Isis

Con la conferenza di Ginevra sulla Siria alle porte e la controffensiva su Mosul ovest appena ripartita, Iran e Turchia sono di nuovo ai ferri corti. Impegnati nella tregua siriana e presenti sul campo iracheno, sono stati costretti dagli attuali equilibri a sedersi allo stesso tavolo. Ma senza amore.

Lo scambio di accuse è riesploso ieri, al centro proprio Siria e Iraq: lunedì l’Iran ha convocato l’ambasciatore turco dopo i commenti del ministro degli Esteri Cavusoglu e del presidente Erdogan, che accusano Teheran di destabilizzare la regione e volerla trasformare in un’enorme enclave sciita.

«L’Iran vuole rendere sciiti Siria e Iraq», ha detto Cavusoglu, mentre Erdogan ha parlato di promozione del «nazionalismo persiano» a cui Ankara non potrà che reagire (dimenticando di citare la sua visione neo-ottomana del futuro del Medio Oriente). La Repubblica islamica ha risposto che la propria pazienza «ha un limite» e convocato l’ambasciatore.

Dichiarazioni al vetriolo che non sono mere parole: i due paesi sono da anni impegnati in una dura competizione, interessati ad una leadership che banalmente è stata ridotta al confronto tra asse sunnita e asse sciita.

Con la Siria che resta, nonostante il cessate il fuoco, chiaro terreno di scontro tra la Turchia che rincorre e l’Iran in posizione di forza (temporanea, dopo l’elezione di Trump), è in Iraq che le due potenze possono nel breve periodo esercitare le proprie concorrenti influenze.

Mosul non è solo un’operazione anti-Isis, ma il luogo di definizione di un nuovo equilibrio dei poteri. Da una parte stanno milizie sunnite e peshmerga, sostenuti da Ankara; dall’altra le milizie sciite che più che a Baghdad fanno riferimento a Teheran in un contesto di frammentazione del fronte sciita in cui il religioso al-Sadr gioca un ruolo di disturbo ai piani iraniani.

Questo il clima che permea la battaglia per Mosul. Dopo il lancio della seconda fase dell’operazione diretta a liberare la zona ovest del Tigri, ieri l’esercito ha ripreso la cittadina di Albu Saif e la base militare di Ghozlani ed è diretto verso l’aeroporto, già colpito dai primi raid.

Secondo il capo della polizia irachena, i miliziani si sono ritirati dopo duri combattimenti, nei quali avrebbe perso la vita anche Abu Abdallah, responsabile islamista della sicurezza dello scalo.

Coperti da elicotteri e artiglieria pesante, i soldati hanno liberato 15 villaggi a sud, portandosi più vicini al cuore di Mosul. Lì, ad attenderli, ci sarebbero 2mila islamisti, cecchini, campi minati e una rete di gallerie sotterranee con cui l’Isis rallenterà Baghdad.

Ovvi i timori delle organizzazioni umanitarie: sono 750mila i civili intrappolati a ovest, di cui poco meno della metà bambini. L’Unhcr ha aperto 8 nuovi campi, oltre a quelli messi in piedi ad ottobre e che ospitano già 84mila sfollati.

«Questa è la triste scelta dei bambini di Mosul ovest: bombe, fuoco incrociato e fame se restano; esecuzioni e cecchini se provano a fuggire», scrive in un comunicato Save the Children.

E se la battaglia si preannuncia lunga e insidiosa sia per la struttura urbanistica di Mosul ovest (la città vecchia, residenziale, è fatta di vicoli stretti e strade tortuose) sia per il timore dei civili sunniti di eventuali abusi da parte sciita, c’è già chi immagina il futuro della seconda città irachena.

Non c’è dubbio che Mosul rappresenterà il banco di prova per l’intero paese. A giocare le sue carte di leader “nazionale” (prima che sciita) è il religioso al-Sadr, da mesi impegnato nella costruzione di un movimento che si presenti come iracheno, al di là di confessioni ed etnie.

Al-Sadr ha proposto una road map di 29 punti, modello amministrativo per le aree liberate che si fondi sull’uscita di tutte le forze straniere dall’Iraq (gli Usa, sì, ma anche l’Iran con cui il religioso non ha buoni rapporti), la fusione delle milizie sciite nell’esercito nazionale e l’abbandono delle armi da parte dei gruppi esterni alle forze ufficiali.

Continua così nel percorso verso una leadership nazionale alternativa a quella attuale, su cui pesa l’ombra delle interferenze esterne.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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