A 50 anni dalla radiazione de “il manifesto”

24/26 novembre 1969: cinquant’anni fa. Nel pieno dell’“autunno caldo” e alla vigilia della tragedia di Piazza Fontana il Comitato Centrale del PCI radiava il gruppo del Manifesto. In questi...

24/26 novembre 1969: cinquant’anni fa. Nel pieno dell’“autunno caldo” e alla vigilia della tragedia di Piazza Fontana il Comitato Centrale del PCI radiava il gruppo del Manifesto.

In questi giorni ricorre anche l’ottavo anniversario della scomparsa (drammatica per il suo concreto verificarsi) di Lucio Magri, e l’occasione è utile per intrecciare alcune valutazioni molto schematiche al fine di contribuire a non far dimenticare ciò che il fatto dell’uscita del gruppo del Manifesto dal PCI ha rappresentato per un pezzo importante della complicata vicenda del movimento comunista in Italia.

Non ripercorrerò qui le tappe di quei giorni del lontano novembre 1969 e neppure analizzerò ancora una volta i punti del dissenso che il Manifesto era andato portando come germe di una contraddizione che il PCI, dopo una lunga discussione, giudicò intollerabile.

La ragione di quel drastico giudizio circa l’incompatibilità tra le ragioni del gruppo del Manifesto e la permanenza dei suoi esponenti nel PCI vanno ricercate negli equilibri che la dirigenza comunista intendeva conservare sul piano internazionale e l’assenza di una volontà politica nel cercare di mutare precise metodologie di organizzazione del dibattito interno.

Me la caverò, comunque, con una frase soltanto: il gruppo del Manifesto era semplicemente (ma radicalmente) portatore di un dato di modernità nella prospettiva dello sviluppo individuandone i motivi profondi della crisi ed egualmente lo stesso gruppo reclamava una forte innovazione nella possibilità di espressione dei propri fini politici.

La permanenza degli esponenti del Manifesto all’interno del Partito avrebbe finito con lo sconvolgere equilibri consolidati nel PCI, ben oltre la stessa richiesta di libera esibizione del dissenso.

Ci trovavamo all’epoca dentro a un quadro molto complicato segnato dal modificarsi del quadro di relazioni internazionali (guerra del Vietnam, decolonizzazione in Africa, nuova fase del bipolarismo dopo la stagione kruscioviana) e dalla ripresa delle lotte (il 68’ era trascorso, ma in Italia resisteva la contestazione con la saldatura operai/studenti, la stagione dei consigli, la spinta verso la democratizzazione del Paese).

L’origine del confronto tra PCI e le diverse espressioni di sinistra comunista e no (pensiamo a Panzieri, ai Quaderni Rossi, all’operaismo, a parti di CGIL e PSIUP) era però datata nel tempo ed era maturata con gradualità: almeno dal ’62 e dal convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, poi con la morte di Togliatti, l’XI congresso, l’invasione di Praga.

Per tutti gli attori in campo, Manifesto compreso c’era da segnalare il permanere di un pesante bagaglio ideologico, anche con qualche ingenuità nella ricerca di riferimenti diversi.

Però l’oggetto del contendere era chiaro: quello della ricerca intorno a quali valori della modernità si poteva fondare un progetto alternativo.

Un progetto alternativo che indicasse un orizzonte in quel momento giudicato “maturo” rispetto ad un modello di fraintendimento dell’inveramento statuale giudicato già con grande anticipo come irriformabile.

In quel momento, invece, il PCI era pronto soltanto per un’avventura posta in una dimensione politicista sul piano del governo.

Un’iniziativa, quella del “compromesso storico” tanto per intenderci sorta non soltanto come risposta “democratica” al dramma cileno ma con la piena convinzione di non strappare la continuità di percorso della peculiare identità politica dell’Italia.

Un “compromesso storico”, sicuramente presentatosi in ritardo all’appuntamento con la storia come poi si sarebbe drammaticamente verificato qualche anno dopo.

Fu la mancata sincronia nella comprensione dei tempi che stavano maturando la ragione vera della rottura.

Usando categorie gramsciane si può affermare che il PCI, nell’occasione della radiazione del Manifesto, finì con il rinunciare a una possibilità originale di esercizio della guerra di posizione finendo con il collocarsi nei suoi i tratti essenziali dentro a un processo di “rivoluzione passiva”.

Un processo di “rivoluzione passiva” introiettato drammaticamente come prologo alla caduta degli anni’80 e alla sostanziale incapacità di resistere alla controffensiva dell’avversario.

A quel punto arrivò la sconfitta, come ancor oggi segnala Luciana Castellina su Micromega ripensando a come fu poi vissuto l’89.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Wikipedia

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